Mi girai e barcollai, affondando i tacchi nell'erba. La mano di Colton scattò in avanti a sostenermi, di nuovo.
Un altro brivido.
Lo ignorai.
Mollò subito la presa e mi sedetti.
Un predicatore – o un ministro del culto – con un abito nero e un collare bianco declamava versetti della Bibbia e pronunciava le solite parole di vuoto conforto.
Quelle emozioni represse mi stavano soffocando. Avevo un fiore in mano e stavano calando il feretro in quell'orribile abisso nero. Buttai il fiore, come da copione.
«Mi dispiace», mormorai.
Non mi sentì nessuno, ma d'altra parte quelle parole erano soltanto per lui. «Addio, Kyle. Ti amo.»
Poi mi voltai e mi misi a correre.
Mi liberai dei tacchi e superai a piedi nudi il prato e il parcheggio, ignorando le voci alle mie spalle.
Il cimitero era a pochi chilometri dalla casa mia e da quella di Kyle. Mi avviai lungo la strada sterrata, indifferente al dolore lancinante provocato dai sassi sotto i piedi. Il male era benvenuto.
La sofferenza fisica.
Mi limitai a correre.
Correre.
In precario equilibrio, con il braccio ingessato.
Mi spostai sulla carrozzabile e continuai a correre.
Un'auto mi raggiunse; era mio padre, che mi implorava di fermarmi. La pioggia mi sferzava, ancora pioggia, sempre pioggia, pioggia incessante dal giorno in cui era morto.
Lo ignorai, scossi la testa, i capelli bagnati che mi frustavano il mento. Stavo piangendo, credo, ma la pioggia si mescolava alle lacrime calde e salate.
Un'altra auto, un'altra voce. Ignorai anche quella.
Non smettevo di correre.
A perdifiato.
Il vestito bagnato, appiccicato alle cosce. Le piante dei piedi roventi, trafitte, escoriate.
Il braccio straziato.
Poi un rumore di passi, falcate cadenzate, regolari, la corsa di uno sportivo. Sapevo chi era.
Non tentava di raggiungermi e io finsi, per un istante, che fosse Kyle. Kyle, che mi lasciava un vantaggio apposta per guardarmi il culo.
Quel pensiero, quell'immagine, il ricordo dell'andatura leggera alle mie spalle, mi tolse il fiato, mi riempì ancor di più gli occhi di lacrime.
Corsi più veloce e il ritmo delle falcate aumentò. I capelli fradici mi sferzarono la bocca.
Pochi passi e mi aveva raggiunto, la camicia bagnata e trasparente, sbottonata fino a metà torace, senza cravatta.
Sembrava non fare alcuna fatica.
Non parlava, non mi guardava neppure.
Correva e basta, al mio fianco. Il nostro respiro cominciò a sincronizzarsi, seguendo un ritmo fin troppo familiare.
A un chilometro e mezzo da casa inciampai in una grossa roccia e persi l'equilibrio. Prima che potessi cadere, Colton mi prese tra le braccia. Mi caricò sulle spalle, come un pompiere, e rallentò l'andatura. Aveva il fiato corto ed era affaticato.
«Ce la faccio da sola.»
Colton si fermò e mi lasciò andare. Non appena appoggiai la caviglia, però, sentii un dolore lancinante e presi a saltellare su un piede.
«Ti porto io», disse.
«No.» Gli afferrai il bicipite, strinsi i denti e feci un passo. Il dolore era forte, ma potevo farcela. Non volevo che Colton mi prendesse in braccio. Avrei dovuto rispondere a troppe domande, una volta arrivata a casa. E comunque mi aspettava un vero e proprio interrogatorio, lo sapevo.
Ma la vera ragione era che mi ero sentita benissimo, tra le sue braccia. Protetta. Al riparo.
In un luogo sicuro.
Fui travolta dal senso di colpa e caricai apposta il peso del corpo sulla caviglia gonfia, scatenando una fitta lancinante lungo la gamba.
Il dolore mi faceva bene.
Mi distraeva.
Mi dava un motivo per piangere. Stavo piangendo per il male alla caviglia, una sofferenza che sarebbe passata, prima o poi.
Mentre non avevo alcuna intenzione di piangere per il mio cuore a pezzi, perché quel dolore non sarebbe mai guarito. Era uno strazio che diventava ogni minuto più insopportabile, intenso e bruciante.
Inciampai e Colton mi prese per mano. «Almeno appoggiati, Nell. Non fare la dura.»
Mi fermai, con il piede sollevato. Esitante. Valutando l'offerta. «No.» Gli lasciai la mano, posai il piede a terra e mossi un passo.
Senza zoppicare, senza saltellare.
Faceva talmente male che non riuscivo a respirare: ottimo. Così
soffocavo il mio senso di colpa. Cacciava via il tormento della mia anima. Dissolveva l'incubo a occhi aperti, la consapevolezza che Kyle non sarebbe più tornato.
Mai più.
Era morto.
Per sempre.
Morto, per salvarmi la vita.
Avanzai ancora, e la sofferenza mi travolse. Chinai la testa in modo che i capelli mi scendessero sul viso, nascondendomi la visuale. C'erano soltanto i passi di Colton accanto a me, il suo respiro, il debole sentore del fumo di sigaretta e quello più lieve dell'acqua di colonia miscelati a quello aspro del sudore. L'odore di un uomo. Unico, quello di Colton. Troppo rassicurante e familiare.
Impiegai un tempo che mi sembrò interminabile per raggiungere casa mia e quando finalmente arrivai all'ingresso avevo la caviglia pulsante e fitte lancinanti mi attanagliavano la gamba e il fianco. Aprii la porta e ignorai i miei genitori, che balzarono in piedi e mi chiamarono, dal soggiorno. Colton era dietro di me.
«Ha preso una storta alla caviglia», disse. «Credo che sia slogata.»
«Grazie per averla accompagnata», fece papà. C'era una nota di sospetto, nella sua voce.
«Nessun problema.» Le scarpe di Colton scricchiolarono sul pavimento di marmo.
«Mi dispiace per tuo fratello, Colton.» La voce di mia madre.
«Già.» Una sola parola, poi la porta si richiuse e lui non c'era più. Arrancai fino alla mia camera, zoppicando, ora che ero sola. Mi sfilai il vestito e le mutandine, fradici di pioggia, poi avvolsi della pellicola trasparente intorno al gesso ed entrai nella doccia. L'acqua bollente mi scaldò la schiena e lavò via il dolore, ma non il senso di colpa.
Quando l'acqua divenne tiepida, mi infilai un accappatoio e mi accoccolai sul letto, sotto una pila di coperte. La stanza era immersa in una calma profonda.
Chiusi gli occhi e vidi Kyle schiacciato dall'albero, trafitto dal ramo, coperto di sangue, che rantolava. Che continuava a mormorare: «Ti amo...Ti amo...» fino all'ultimo respiro. Poi le sirene dell'ambulanza avevano squarciato il silenzio, annunciandone la morte.
La porta della mia stanza si aprì e il materasso si inclinò leggermente, quando mia madre vi si sedette. Qualcosa di caldo e umido mi solcò la guancia. Non era una lacrima. Non volevo piangere. Non potevo. Lasciarmi andare, significava mettere a nudo la mia anima. Non avrei più smesso. Mi sarei sbriciolata in mille pezzi... polverizzata. No. Il liquido sulla mia guancia era sangue, che sgorgava dal mio cuore ferito, a brandelli.
«Nell... tesoro.» La voce di mia madre era dolce, timida. Sollevò le lenzuola e tastò la mia caviglia. «Oddio, Nell. Dobbiamo farla vedere a un dottore. È gonfia e arrossata.»
«Basta fasciarla. Metterci un po' di ghiaccio. Non è rotta.»
Sospirò, restò zitta per un po', poi sparì e ricomparve con il ghiaccio e una fascia elastica. Quando mi ebbe medicato, tornò a sedersi. «Non sapevo che conoscessi Colton.»
«Non lo conosco.»
«Stavate fumando.» Non risposi, non avevo motivi né scuse. «Parlami, ti prego.»
«Per dire cosa?» Mi tirai le coperte sopra la testa.
Mia madre le abbassò e mi scostò i capelli umidi dagli occhi. «Non dico che smetterai di soffrire. Però ti aiuterà a stare meglio.» Suo fratello maggiore era morto in un incidente d'auto quando la mamma era al college. Per lei era ancora difficile parlarne, nonostante fosse passato tanto tempo. Erano molto legati, credo.
«Non voglio stare meglio.»
«Perché?» Prese la spazzola dal mio comodino e mi tormentò finché non mi misi seduta. Mi spazzolò i capelli piano, con amore, come quando ero bambina. Prima di addormentarmi, mi cantava sempre una canzone, pettinandomi.
«Perché se starò meglio... mi dimenticherò di lui.» Avevo il suo biglietto, stretto nella mano ingessata. Lo presi con l'altra e lo aprii. La carta era umida, l'inchiostro blu tutto sbavato, ma leggibile.
Mia madre sospirò, sconsolata. «Oh, tesoro. No. Te l'assicuro, non ti dimenticherai mai di lui. Ma devi lasciare che la ferita si rimargini. Non tradirai il suo ricordo, smettendo di soffrire. Kyle avrebbe voluto che tu stessi bene.»
Avevo un nodo in gola, mi sentivo soffocare, bruciare. Mi aveva letto nel pensiero. Se avessi smesso di ricordarlo, se avessi smesso di soffrire, sarebbe stato come tradirlo. Tradire noi.
«Non è colpa tua, Nell.»
Rabbrividii, annaspando alla ricerca di un po' di ossigeno. «Ti va di cantare una canzone? Come quando ero piccola?»
Dovevo distrarla. Non potevo dirle che invece era tutta colpa mia. Avrebbe tentato di convincermi del contrario.
Lei sospirò, come se sapesse che la mia era una tattica, e cominciò a cantare Danny's Song di Kenny Loggins. Era il suo brano preferito e lo conoscevo a memoria, perché me lo cantava tutte le sere.
Quando l'ultima nota le morì in gola, rabbrividii, sentendo altre lacrime sgorgare dagli occhi, dal mio cuore ferito. Non le asciugai, lasciai che scivolassero sulle labbra, lungo il mento.
Mia madre posò la spazzola e si alzò. «Adesso prova a dormire, Nell.»
Annuii e appoggiai la testa sul cuscino. Chiusi gli occhi, e sognai. Sogni tormentati, carichi di angoscia. Gli occhi di Kyle su di me, mentre moriva; gli occhi di Colton su di me.
Lessi il biglietto, sette volte. Recitai le parole sotto voce, come una poesia.
Mi svegliai e l'orologio segnava le 3.38. Non respiravo, avevo il petto schiacciato dal dolore. Ero oppressa dalle pareti della stanza, che mi circondavano, premendo sulle ossa del cranio. Mi sbarazzai della borsa del ghiaccio, e fasciai nuovamente la caviglia, poi indossai i miei pantaloni della tuta preferiti e una felpa con il cappuccio. Quella di Kyle. Aveva il suo odore, così rassicurante, anche se contribuiva ad aumentare la pressione sul mio cuore. Squarciava il velo di torpore e mi toccava l'anima, stringendola in una morsa rovente. Scesi le scale in silenzio, a fatica, su un piede solo. Uscii dalla porta sul retro e mi avviai lungo il sentiero di ciottoli che portava al pontile.

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Sei sempre stata mia
Chick-LitNell ha sedici anni e fin da piccola è crescita con Kyle il suo miglior amico oltre che futuro ragazzo. Il loro amore è invincibile e sembra che sia pieno di speranze e promesse. Poi un giorno Kyle muore in un tragico incidente. Ora che Kyle non c'è...