Tornai bruscamente alla realtà e la certezza di ciò che avevamo appena fatto mi trafisse il cuore. Mi allontanai, respingendo la sensazione travolgente di sollievo che avevo provato tra le sue braccia. Mentre lo baciavo.
«Cosa sto facendo?» Indietreggiai, sempre di più. «Cosa sto facendo? Cosa cazzo sto facendo?» mi voltai e me ne andai zoppicando, aggrappandomi al tenue filo della mia sanità mentale, impedendo a stento di farmi divorare dal senso di colpa.
Colton mi seguì, mi raggiunse e mi bloccò, posandomi le mani sulle spalle. «Aspetta, Nell. Aspetta. Aspetta, ti ho detto.»
Mi divincolai. «Non toccarmi. È... è stato uno sbaglio. Un grosso sbaglio. Mi... mi dispiace.»
Scosse la testa, gli occhi frementi di emozione. «No, Nell. È successo e basta. Anche a me dispiace. È successo e basta. Non c'è niente di male.»
«E invece sì!» gridai. «Come ho potuto baciarti, se lui è morto? Quando l'uomo che amo non c'è più? Come posso baciarti se... se io... se Kyle...»«Non è colpa tua. Lo volevo anch'io. Non è colpa tua. È accaduto e basta.» Continuava a ripeterlo, come se leggesse dentro di me, vedesse il mio tormento, il peso segreto di una consapevolezza terribile.
«Smettila!» Le parole mi uscirono di bocca prima che potessi impedirlo. «Tu non sai niente! Tu non c'eri! Lui è morto e io...» non riuscii a finire la frase.
Quel pensiero, la certezza della verità, era una cosa; dirlo ad alta voce al fratello di Kyle, che avevo appena baciato, era un'altra faccenda.
Era di nuovo accanto a me. Soltanto pochi centimetri ci separavano. L'aria intorno a noi crepitava di energia.
«Non parliamone più, va bene?» mormorò con voce rotta dall'emozione, vibrante di passione e dolcezza.
«Non ce la faccio... Davvero... Non ce la faccio.» Mi voltai, e questa volta Colton Calloway non mi fermò. Sentivo che capiva i miei pensieri, che frugava in fondo alla mia anima, dove si annidavano la colpa e la sofferenza. Arrivai alla mia camera, al mio letto. Chiusi gli occhi e vidi Kyle che moriva, all'infinito. Ogni tanto, tra un'immagine e l'altra, il viso di Colton. Sempre più vicino. La sua bocca sulla mia.
Era dolore liquido, quello che sgorgava dal mio viso. Dai miei occhi e dal mio naso e dalla mia bocca. Non erano lacrime. Era soltanto dolore liquido, inconsolabile, che fluiva dai miei pori. C'era soltanto la pressione che mi schiacciava il petto, il peso del dolore e della colpa... provavo solo quello. Non avrei mai più sentito nient'altro. Ne ero sicura. Sapevo anche che avrei imparato a fingere la normalità, un giorno. Imparato a vivere, a esistere, a sembrare normale. Ma sarebbe stata una normalità apparente.
Il biglietto era sotto il mio cuscino. Lo aprii e lo accarezzai con lo sguardo.
...E adesso stiamo imparando insieme cosa significa essere innamorati. Non mi importa cosa dicono gli altri. Io ti amo. Ti amerò sempre, qualunque cosa succeda. Ti amo adesso, e ti amerò per sempre.Le lacrime avevano sbavato l'inchiostro, trasformando le lettere in una macchia di Rorschach. Un'altra lacrima cadde sulla carta, proprio in fondo. La osservai deformare la Y inclinata della sua firma.
Alla fine le lacrime finirono e mi addormentai. Sognai occhi nocciola e occhi azzurri, quelli di un fantasma accanto a me, che mi amava, e di un uomo in carne e ossa su un pontile, che beveva whisky, suonava la chitarra e ricordava un bacio proibito. Nel sogno, si chiedeva che significato avesse. Nel sogno, entrava di nascosto nella mia camera e mi baciava di nuovo. Mi svegliai sudata e tremante e travolta da un colpevole senso di nausea.Colton pov
Due anni dopoSono seduto su una panchina vicino a Central Park e suono la chitarra.
La custodia è a terra, ai miei piedi, e sul velluto bordeaux della fodera brilla il verde di qualche dollaro, che ho gettato lì come esca.
Sono mesi che non suono per strada. In officina c'è stato un sacco da fare, troppi ordini, troppe riparazioni e lavoretti. Questa invece è la mia dimensione: aria aperta, niente aspettative.
Qui la mia anima si sprigiona.
Qui, e durante il mio concerto settimanale al Kelly's bar.
Il denaro non c'entra, anche se di solito racimolo un discreto gruzzoletto.
C'entra la musica, che fluisce dalle mie vene ed entra nella chitarra, che filtra dalle mie corde vocali.
Sto accordando lo strumento, modulando l'intonazione per il prossimo brano.
Ho la testa china, piegata di lato, l'orecchio teso a catturare la nota perfetta.
La trovo e faccio un cenno con il capo, soddisfatto.
Attacco con I and Love and You degli Avett Brothers. È una canzone che attira sempre un sacco di gente. È merito del testo, più che altro.
È un pezzo incredibile. Così denso di significato. Canto la prima strofa e alzo gli occhi, guardando il marciapiede. Un uomo di mezza età in giacca e cravatta, un cellulare incastrato tra la spalla e l'orecchio e un altro attaccato a una cintura di pelle dall'aria costosa; una ragazza dai capelli ossigenati raccolti in una crocchia disordinata, che tiene per mano un bimbo dalla faccia impiastricciata, entrambi fermi ad ascoltare; una giovane coppia gay,
vistosa, pettinatura alla moda e foulard dai colori sgargianti; tre ragazzine che si parlano all'orecchio, ridendo, e mi trovano carino.
E lei.
Nell.
Potrei scrivere un brano, e il suo nome sarebbe la musica. Potrei
cantare, suonare e il suo corpo sarebbe la melodia. È ferma dietro al capannello di persone, seminascosta, appoggiata a un parcometro, la borsa patchwork su una spalla, il vestito verde chiaro che le sfiora le ginocchia, fasciandone le curve, i capelli biondo ramati trattenuti da una treccia lenta che le scende su una spalla. La pelle bianca come l'avorio, perfetta, che implora le mie carezze. I miei baci.
Non sono un santo.
Sono uscito con altre ragazze, da allora, ma non sono mai state all'altezza.
Non sono mai state giuste.
Non hanno mai resistito a lungo.
E ora eccola, davanti a me. Perché? Ho cercato con tutte le mie forze di dimenticarla, ma il suo viso, le sue labbra, il suo corpo, intravisto sotto un vestito nero fradicio di pioggia continuano a ossessionarmi.
Ha affondato i denti sul labbro inferiore, torturandolo, gli occhi grigio-verdi piantati su di me, che mi inchiodano alla panchina. Merda. Non ho mai capito il motivo di quell'abitudine, mordersi le labbra, non ci arrivo. Voglio appoggiare la chitarra e andare da lei e assaggiare quella bocca piena e perfetta e non lasciarla più andare via.
Quando i nostri sguardi si incrociano, vacillo; ma resisto. La fisso e continuo a cantare. Lo faccio per lei, sul ritornello finale: «I... and love... and you».
Lei lo sa. Lo legge nei miei occhi. Cantarle questa canzone è pura follia, ma non riesco a smettere. Osservo le sue labbra muoversi, sta cantando sottovoce. Nella sua espressione vedo il dolore, il tormento.
La persona davanti a lei si sposta e intravedo la custodia di una chitarra appoggiata contro la sua coscia, con la parte arrotondata sul marciapiede e il manico in equilibrio, contro il palmo della sua mano. Non sapevo che suonasse.
Il brano termina e la folla si disperde, mentre qualcuno lancia banconote da uno e da cinque. L'uomo in giacca e cravatta – sempre al telefono – mi allunga un biglietto da cinquanta e un biglietto da visita, presentandosi come il produttore di una casa discografica.
Io gli faccio un cenno e lui mi risponde con un gesto della mano libera, per invitarmi a chiamarlo. Potrei farlo. O magari no.
La musica è libertà, non una questione di affari.
Lei piega le ginocchia e solleva la custodia del suo strumento, poi si avvicina e si siede accanto a me, sulla panchina. Ha gli occhi sempre piantati nei miei, mentre si abbassa, apre la custodia ed estrae una bellissima chitarra acustica Taylor. Si morde il labbro di nuovo, pizzica le corde, esegue un paio di accordi, attacca con Barton Hollow.
Rido piano e mi accorgo che il dolore non se n'è mai andato. Per tutto questo tempo, lo ha portato dentro di sé. La seguo e comincio a cantare. Le parole mi escono con naturalezza. Lei suona bene, con disinvoltura, ma si vede che è fuori esercizio. Continua a guardarsi le dita, mentre passa da un accordo all'altro, e sbaglia alcune note. Ma la sua voce... È magia pura, soave e argentea e cristallina e dolcissima.
Insieme, attiriamo una folla. Decine di persone. Tutta quella gente ci impedisce di vedere dall'altra parte della strada e mi rendo conto che l'attenzione la sta mettendo a disagio. Accavalla le gambe, batte un piede a ritmo, china la testa come per nascondersi dietro un'immaginaria cortina di capelli. Le scivola una corda tra le dita, si perde. Mi giro e le lancio un'occhiata, le faccio un cenno per rassicurarla, rallento e la invito a seguirmi. Lei fa un respiro profondo, gonfiando il petto, e riprende a suonare.
Alla fine, troppo presto, la canzone termina. Per un attimo ho paura che si alzi, riponga la chitarra nella custodia e svanisca misteriosamente, senza dirmi una parola, così com'è apparsa. Ma non lo fa. Grazie al cielo. Si guarda intorno, si tormenta il labbro, mi fissa. Io aspetto.
Pizzica alcune corde, svogliata, indecisa, poi annuisce con un cenno rapido del capo come per dire: Sì, questa. Poi attacca con una melodia che conosco, ma che non riesco a identificare.
E canta.
E di nuovo, la sua tecnica mediocre scompare, sostituita dalla bellezza sconvolgente della sua voce. Sta cantando Make You Feel My Love. La versione di Adele è semplice e potente, solo la sua voce unica, accompagnata dai tasti di un pianoforte. Quando Nell canta, prende la melodia e la rigira, rendendola ipnotica e triste e tormentata, quasi country.
La canta su una tonalità bassa, mormorando le parole.
E la canta per me.
Questo non ha alcun senso.
Eppure mi osserva, e vedo la sofferenza e la colpa nel suo sguardo.
Si sente ancora responsabile. L'ho sempre saputo e ho sperato che il tempo la guarisse, ma capisco, anche senza averle parlato, che si porta quel peso sulle spalle.
Adesso c'è come un'ombra, in questa ragazza.
Qualcosa di oscuro.
Mi viene persino voglia di scappare lontano.
Mi farà del male. Lo so. Lo vedo, lo sento. C'è così tanto dolore in lei, la sua anima è talmente ferita e lacerata e straziata che, se non starò attento mi farà a pezzi.
Non posso guarirla. Ne sono certo. Non ho intenzione di provarci. Ho conosciuto troppe ragazze con la sindrome della crocerossina, che si sono illuse di potermi salvare. So anche che non riuscirò a starle lontano. Mi aggrapperò a lei e lascerò che mi ferisca. Ci so fare, con i tormenti. Ci so fare, quando si tratta di sanguinare, nell'anima e nel corpo.
La lascio cantare. Non mi unisco a lei; è il suo momento, voglio che lo assapori. La folla fischia e applaude e lancia delle banconote nella custodia aperta della sua chitarra.
Ora tocca a me. So che devo scegliere la mia canzone con cura. Perché stiamo stabilendo un dialogo, qui. Stiamo conversando in musica, una discussione fatta di accordi e note e titoli di canzone. Poi decido: Can't Break Her Fall di Mat Kearney. È un pezzo che mi parla, ed è unico, non si dimentica. E sono convinto che lei mi sentirà, sentirà ciò che non le ho mai detto. In parte cantata, in parte recitata, come un rap. Il testo descrive una storia intensa e forte, e all'improvviso ci vedo noi due.
Lei ascolta con attenzione. I suoi occhi grigio-verdi diventano due lame taglienti e i denti affondano nel labbro, mordendolo forte. Oh, sì. Mi ha sentito.
Vedo il tremito della sua mano, quando ripone la chitarra e corre via, il più lontano possibile.
La treccia che dondola tra le scapole e il candore dei polpacci, illuminati dal sole di New York.
La lascio andare; concludo la canzone, eseguendo gli ultimi due accordi, poi chiudo la custodia e la seguo.
Attraversa la strada, incurante dei colpi di clacson dei taxi, del frastuono del traffico, e scende nella metro. Timbra il biglietto e resta incastrata nel tornello, ostacolata nei movimenti dalla chitarra.
Fa un altro tentativo, ma il tornello non si muove, e impreca sottovoce. Alle sue spalle si sta formando la fila, ma lei la ignora e ignora anche me, così vicino.
Gira la testa, si arrende.
Io le passo davanti, infilo il mio biglietto e la faccio entrare.
Lei ubbidisce, stordita, e non protesta quando prendo il suo strumento e me lo metto a tracolla. Poso la mano libera sulla sua schiena, spingendola sul vagone. Non mi guarda, non dubita che sia io. Lo sa. Sta ancora prendendo respiri profondi, nel tentativo di calmarsi.
La lascio fare, lascio che il silenzio distenda le sue dita su di noi. Non si volta verso di me, ma si appoggia appena, sfiorandomi il torace con la schiena. Concedendosi un leggerissimo contatto.
Dopo alcune fermate scende e io la seguo. Sale su un altro treno e proseguiamo il viaggio senza dire una parola. Non mi ha ancora guardato, da quando è scappata da quella panchina, a Central Park. Mi sono limitato a starle dietro, come un'ombra furtiva.
La pedino fino a Tribeca, su per le scale echeggianti di un palazzo. È praticamente impossibile non farlo. Ha un culo così incantevole, rotondo e sodo, che ondeggia invitante sotto il cotone impalpabile del vestito.
Infila una chiave nella porta dell'appartamento 314, apre con la punta del piede e va direttamente in cucina, senza controllare se entro anch'io. Mi chiudo la porta alle spalle, poso la custodia sul pavimento, sotto un interruttore della luce, ai piedi di un tavolino pieno di spartiti e manuali di chitarra e confezioni di corde di nylon. La guardo mentre apre le ante di un pensile accanto al frigorifero, tira fuori una bottiglia di Jack Daniel's, svita il tappo e lo butta sul bancone. Con la mano che trema, porta la bottiglia alle labbra e beve tre sorsi, lunghi e vigorosi. Maledizione. La appoggia con forza e resta aggrappata al bancone, la testa ciondoloni, una gamba tesa all'indietro, l'altra piegata in avanti, come per fare stretching. Rabbrividisce, si ricompone, si asciuga le labbra con il dorso della mano. Mi avvicino e la sento irrigidirsi. Allungo un braccio sfiorandole una spalla e lei ha un sussulto, poi prendo la bottiglia e bevo tre lunghi sorsi, come lei. Provo un bruciore in gola, un dolore che conosco bene.
Finalmente si gira e mi fissa, con un'aria indagatrice. All'improvviso sembra il personaggio di un manga, con gli occhi enormi, in cui si riflettono emozioni piatte e superficiali. Voglio baciarla con tutto me stesso, ma non lo faccio. Non la tocco nemmeno, anche se ci separano pochi centimetri. Tengo stretta la bottiglia, posando l'altra mano al bancone, accanto al suo gomito.
«Perché sei qui?» mi chiede. La voce è un sussurro corroso dal whisky.
Sulle mie labbra affiora un sorriso sghembo. «Qui nel tuo appartamento? O qui a New York?»
«Nel mio appartamento. A New York. Nella mia vita. Qui. Perché sei qui?»
«Ci vivo, a New York. Da quando avevo diciassette anni. Sono qui nel tuo appartamento perché ti ho seguito da Central Park.»
«Ma perché?»
«Perché non avevamo finito di parlare.»
Lei arriccia il naso, scettica, una smorfia così irresistibile e
adorabile che mi manca il fiato. «Parlare? Non abbiamo detto una sola parola.»
«Però stavamo conversando.» Porto la bottiglia alle labbra e bevo un altro sorso, che mi arriva come un pugno nello stomaco.
«A proposito di cosa?»
«Questo devi dirmelo tu.»
«Non lo so.» Mi toglie la bottiglia dalle mani, beve, la chiude e la
mette via. «A proposito... di quella notte sul pontile.» «Più o meno, ma non solo.»
«Allora di cosa?»
«Di noi.»
Lei si allontana dal bancone, piega la testa di lato e scioglie la treccia, sfilandosi le infradito. «Non c'è nessun noi. Non c'è mai stato e non ci sarà mai.»
Non ribatto, perché ha ragione. Ma ha anche torto marcio. Ci
sarà, un noi. È solo che non lo sa ancora. Cercherà di resistere, perché è sbagliato sotto molti punti di vista. Sono il fratello maggiore del suo fidanzato, che è morto. E non mi conosce per niente. Sono sbagliato, per lei. Non dovrei permetterle di bere. È ovvio che stia usando il buon vecchio Jack per sopravvivere e lo capisco fin troppo bene. Ma ha solo vent'anni, troppo pochi per bere in quel modo, direttamente dalla bottiglia, come un alcolizzato all'ultimo stadio.
Finisce di sciogliere la treccia e scuote i capelli, passandovi le dita. «Dovresti andartene», dice sparendo in camera da letto. Sento un fruscio di vestiti che cadono a terra. «Devo andare a lezione.»
Sono uno stronzo sfacciato. Lo so, perché soltanto uno stronzo sfacciato si sarebbe spostato per spiarla. Come sto facendo in questo preciso istante. Indossa un completino intimo rosa a pois neri. È di spalle e vedo il suo culo tondo e sodo e perfetto, fasciato dalle mutandine. Che spettacolo. Se ne accorge e si volta a guardarmi. «Sei proprio uno stronzo.»
«Potevi chiudere la porta.»
«Ti avevo chiesto di andartene.» Apre un cassetto, tira fuori un paio di jeans e li infila.
Guardare una ragazza che si veste è eccitante quasi quanto guardarla mentre si spoglia.
«Ma non l'ho fatto e tu lo sapevi.»
«Non sapevo che mi avresti spiato mentre mi cambiavo. Porco schifoso.»
Sfodero quello che i miei amici chiamano il mio sorriso «sfilamutande». «Non sono un porco. Sono solo un amante dell'arte.»
Lei fa una smorfia. «Astuto, Colton. Davvero astuto.»
Sorrido. Nessuno mi chiama Colton. Nessuno. Sono Colt. «Non voleva essere una frase a effetto, Nell. È la verità.» Le rivolgo un sorriso smagliante e mi avvicino.
Lei si irrigidisce, stringendo al petto una maglietta azzurra. «Cosa fai?»
Non rispondo. Continuo ad avanzare, un passo dopo l'altro. Mi sento un predatore, un leone che sta inseguendo la preda. Ha gli occhi spalancati, occhi di cerbiatta. Le narici fremono, le mani tormentano la maglietta, il seno si alza, mentre fa un respiro profondo, si gonfia e sembra voler uscire dal reggiseno. Dio, come vorrei che accadesse. L'ho detto, sono incorreggibile. La sua camera è minuscola.
C'è a malapena lo spazio per il letto e l'armadio. Sono di nuovo così vicino che potrei vederle i capezzoli, se solo abbassassi lo sguardo. Per non parlare del suo candido, sontuoso décolleté. Però non lo faccio. La guardo, lascio che legga il desiderio animalesco e il ribollire confuso delle mie emozioni, mentre allungo un braccio verso di lei. Le sfioro la spalla, la spallina del reggiseno, mentre afferro lo stipite della porta. Sono vicinissimo, ora. Il suo seno mi solletica il torace, il mio braccio le accarezza la spalla e l'orecchio. Chiude gli occhi e mi accorgo che trattiene il fiato. Si rilassa, sento la tensione che sgorga via da lei, poi inclina il capo, posandolo contro il mio braccio.
Apre gli occhi con rinnovata determinazione e raddrizza la schiena per non toccarmi. Chiudo la porta tra noi. Prima di uscire dal suo appartamento, prendo uno dei miei biglietti da visita dal portafogli e lo lascio sul tavolino, accanto alle confezioni di corde da chitarra. Esco facendo rumore, in modo che sappia che sono andato via.
La camminata fino alla metro e il viaggio al Queens, dove abito, è lungo e mi lascia troppo tempo per interrogarmi sul casino in cui mi sto cacciando. Nell è una pessima notizia. È una persona ferita, ha un fardello pesante e antico sulle spalle. E anch'io.
Butto la chitarra sul letto e scendo in officina. Metto il telefono in carica e sparo a tutto volume Stillborn dei Black Label Society, concentrandomi sul motore che sto riparando. È per una Chevrolet Camaro del '69, e la cosa non significava niente, per me, prima di rivedere Nell. Ora sono ossessionato dall'immagine della Camaro di Kyle, che avevo recuperato da uno sfasciacarrozze anni prima, trasformandola da rottame arrugginito ad auto nuova di zecca, per poi gettarmela alle spalle, quando mi ero trasferito a New York.
Amavo quella macchina e abbandonarla mi era costato moltissimo, ma era stato papà a pagarla, quindi non avevo avuto scelta. Non importava che avessi speso di tasca mia ogni singolo centesimo per acquistare le parti di ricambio, per non parlare del sangue, del sudore e delle lacrime versati per ripararla. Il denaro era di papà e se mi fossi trasferito a New York invece di andare a Harvard, allora avrei portato con me soltanto quello che mi ero comprato con i miei soldi. Quelli erano i patti. Almeno Kyle se ne era preso cura.
Risi amaramente, ripensando alle aspettative di mio padre. Aveva davvero creduto che andassi a Harvard. Che idiozia. Anche adesso, quasi dieci anni dopo, non riesco a immaginare cosa gli passasse per la testa. Là dentro sarei stato a mio agio come un elefante in un negozio di cristalli.
Nell. Smerigliare fasce elastiche è un lavoro noioso, quindi ovviamente non posso fare a meno di pensare a lei. Alla sua voce dolce e cristallina e ai suoi intensi occhi grigio-verdi e al suo corpo bellissimo, da sballo. Sono in un gran casino. Specialmente quando rivedo il dolore nel suo sguardo, il modo disperato in cui si attaccava alla bottiglia, come se il torpore le fosse amico, come se il bruciore in fondo alla gola rappresentasse una tregua dalla realtà. Conosco quella disperazione e voglio guarirla. Voglio scoprire i suoi pensieri, voglio sapere cosa la tormenta.
In realtà, lo so. Kyle è morto, e lei c'era. Ma non è solo quello. C'è dell'altro. Qualcos'altro che la divora, come un senso di colpa. E voglio sapere di cosa si tratta, in modo da liberarla. Impresa, ovviamente, impossibile, e stupida e folle.
Appoggio la carta abrasiva, controllo la fascia e decido che l'ho smerigliata a dovere. Ora tocca al collettore di scarico e anche quello richiede un basso livello di concentrazione, quindi lascio vagare i miei pensieri e la sento, mentre posa la testa al mio braccio, solo un istante, come se volesse disperatamente lasciarsi andare, appoggiarsi a me. Ma non lo ha fatto, e non posso evitare di rispettarla, per questo, anche se so che la sua forza è fasulla, sorretta in modo precario dal buon vecchio Jack.Un giorno, molto presto, quei puntelli cederanno e il suo mondo andrà in pezzi, e so che dovrò esserci, quando avverrà.

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Genç Kız EdebiyatıNell ha sedici anni e fin da piccola è crescita con Kyle il suo miglior amico oltre che futuro ragazzo. Il loro amore è invincibile e sembra che sia pieno di speranze e promesse. Poi un giorno Kyle muore in un tragico incidente. Ora che Kyle non c'è...