CAPITOLO 3: IL COPRIFUOCO

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Ero intenzionata a lasciare la mia vita fuori dalla storia che stavo per raccontarvi, ma la mia vita improvvisamente si intromise nella mia storia.

Sapevo che avesse intrapreso anche lui la strada di allenatore, e di certo era molto più in gamba di me, anche se ci separavano soltanto due anni.

L'ultima volta che parlai con lui accadde quattro anni fa, quando decise di voler intraprendere il suo viaggio per le regioni e io, ancora troppo immatura per capire il suo sogno, piangevo vedendolo andar via di casa.

I miei divorziarono quando noi eravamo entrambi molto piccoli, tant'è che non ricordo nulla di cosa accadde con precisione, per di più mia madre era ostinata a non dare spiegazioni nonostante passasse il tempo. Ogni volta che le veniva chiesto dove fosse papà, si giustificava rispondendo che lui avesse bisogno dei suoi spazi.

Quando poi iniziammo a crescere, la sua motivazione preferita divenne che fossero due caratteri molto differenti, ed era stato un errore decidere di poter vivere assieme. Non ero sicura ci credesse davvero. Fatto sta che, ogni volta che tornavamo sull'argomento, dopo un po' tagliava il discorso, concludendo sempre la frase: «L'unica cosa su cui concordavamo di non aver sbagliato, eravate voi due, il nostro più grande successo», a ciò io e mio fratello sorridevamo, ma entrambi sapevamo che lo dicesse solo per non farci pesare la situazione.

Tornando a Mirko, quando decise di diventare allenatore, si trasferì da mio padre. Ricordo che mi abbracciò promettendomi che ci saremmo rivisti, ma i giorni passarono fino a diventare anni, e le mie speranze svanirono.

Adesso in me si mescolavano emozioni contrapposte, alternavo momenti di gioia con quelli di tristezza, e altri pervasi di rabbia. Avrei voluto volentieri tirargli un ceffone, ma anche abbracciarlo forte. Mi lasciai guidare dall'istinto, camminando verso di lui lentamente. Ero troppo orgogliosa per farmi vedere sorpresa e soprattutto, felice di rivederlo.

«Mirko», dissi, cercando di apparire distaccata.

Cosa che odiavo più di mio fratello, è che riuscisse a leggere i miei sguardi e trovasse le parole anche nei miei silenzi.

«Lo so, puoi picchiarmi se vuoi!» esclamò lui, guardandomi con occhi sommessi.

«Non fare quella faccia da pesce lesso, non funzionerà!» lo rimbeccai, cercando di apparire irremovibile.

«Hai ragione, sono stato un vero...» e terminò la frase aggettivandosi coloritamente, il che non mi dispiacque affatto. Avrei volentieri gridatoglielo anch'io.

«Sì, lo sei stato. Neanche una dannata cartolina? Un ciao, come va? Un mi manchi?» lo rimproverai, lasciandomi sopraffare dallo sdegno che ancora nutrivo nei suoi confronti.

«La vita da allenatori non è affatto semplice. Sfidare i Capipalestra è stressante.

Se perdi, oltre alla medaglia, non ricevi neanche soldi. Se non ottieni soldi, sei costretto a spendere ciò che hai per curare i tuoi Pokemon. Quindi niente cibo, ammenoché non te lo procuri da solo, sia a te che ai Pokemon, ovviamente.

In più, non è detto che riesci a garantirti ogni notte un tetto sulla testa, capita di dormire in strada, per le Città. Quindi spedire cartoline non è che fosse proprio la mia priorità!» si giustificò lui.

«So cosa vuol dire diventare allenatori Mirko! Sono partita due anni dopo di te, ma ciò non significa che sia scomparsa dalla vita di mamma, o di papà. Scommetto che lui lo sentivi, non è vero?» la mia domanda lo spiazzò, me ne accorsi dalla sua espressione impacciata.

«No, cioè sì. Quello che voglio dire, è che non gli inviavo cartoline o gli dicevo cose come mi manchi! Era lui che ogni tanto si faceva vivo e decidevamo di incontrarci, per un giorno al massimo» tentò di spiegare.

{POKÉMON} ~ DARK LEAGUEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora