27. gli assenti all'appello

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Tre dei capi della ribellione mancavano all'appello e, fra loro, proprio l'uomo di cui la Ribellione non poteva fare a meno.

Evander.

La battaglia aerea si era conclusa con la vittoria dei ribelli: le navi endar erano state colate a picco, e le astronavi ribelli erano atterrate sul suolo di Edresia.

Subito dopo l'atterraggio, Lord Cassian aveva convocato tutti i capi ribelli sulla nave di Lord Kaleb, e questi ultimi risposero alla chiamata immediatamente, facendosi teletrasportare a bordo di Orione305 senza attendere un solo minuto.

Sarebbe stato più pratico raggiungere il luogo di incontro a piedi, dal momento che tutte le navi erano atterrate a breve distanza l'una dall'altra. Tuttavia, era stato deciso che ci si sarebbe serviti del teletrasporto, per non dare nell'occhio: in tal modo, nessuno dei ribelli, né dei nemici avrebbe potuto notare l'assenza di coloro fra i capi ribelli che avevano perduto la vita durante la battaglia aeronavale appena conclusa.

Tuttavia, mentre si facevano teletrasportare a bordo della nave di Kaleb, neppure i ribelli stessi sapevano chi sarebbe mancato all'appello.

Fu un colpo a sorpresa vedere che proprio Evander e Jayden non si sarebbero presentati. E neppure Taide.

Una sorpresa che li lasciò tutti senza parole. Rimasero lì, nella sala circolare ed asettica del teletrasporto, angosciati, a fissarsi l'un l'altro negli occhi. Si guardavano attorno con vana speranza, aspettandosi di vedere i tre assenti prendere forma all'improvviso accanto a loro in un luminoso flash azzurrastro. Ma più i secondi passavano e più appariva evidente che Taide, Jayden ed Evander sarebbero mancati all'appello.

Tuttavia, nessuno osava interrompere quel momento di silenzio: ciascuno credeva di doversi rassegnare a piangere la morte di tre cari amici e di doversi abituare all'idea che la Ribellione era finita, dal momento che quella guerra non poteva avere alcun senso senza Alekym.

E per Adalwyn, la vita stessa non aveva alcun senso senza Taide.

La prima a interrompere quel mortale silenzio fu Zora.

«Sono ancora vivi. Tutti e tre». La sua voce era bassa e solenne: non ammetteva repliche.

Nessunò si sognò di negare quelle parole: in fondo, quella era anche la loro speranza, per quanto nessuno nutrisse la stessa fiducia intoccabile di Zora.

Mida fu il secondo a parlare.

«Tutti e quattro»corresse, annunciando ai presenti l'inaspettata notizia: «Tutti e quattro. Jayden... aspetta un figlio. Due mesi, ormai».

Se un momento prima tutti apparivano sconvolti e spaventati, ora lo erano due volte tanto.

Doppiamente angosciante per quella scoperta, il silenzio cadde per la seconda volta e perdurò per lunghi secondi prima che qualcuno lo interrompesse:

«Un figlio! Non riesco a credere che me lo abbia tenuto nascosto» mormorò Lord Cassian, scuotendo leggermente la testa a scatti, con gli occhi spalancati, come se essa fosse percorsa da corrente.

Mida annuì.

«Ha preferito tenerlo segreto. Sapeva che questa notizia avrebbe potuto mandare in panico molti dei presenti e far perdere la lucidità e la freddezza necessarie in un momento come questo» disse.

Dopo un paio di secondi, scuotendo la testa con evidente disapprovazione, aggiunse: «Neppure il padre ne era al corrente».

«Non parlare di Evander al passato...!» mormorò Zora.

«Nessuno di noi vuol credere che siano morti. Ma, Zora, tu lo sai: dobbiamo... essere pronti al peggio» le disse Mida.

«Io lo so. Lo sento. Sono ancora vivi». Zora non voleva sentire ragioni.

Anche Adalwin condivideva il suo stato d'animo. Non riusciva a rassegnarsi all'idea che le persone a cui voleva più bene al mondo, coloro che davano un senso alla sua esistenza, erano morte. Non osava parlare, e non ascoltava neppure più.

Si girò improvvisamente, dando le spalle ai presenti, i quali, ancora in cerchio l'uno di fronte all'altro, erano rimasti nella stessa posizione in cui i loro corpi si erano materializzati con il teletrasporto.

Su Adalwyn, l'effetto alienante e febbricitante del teletrasporto non era ancora svanito e non accennava a diminuire.

Ma, dopo aver fatto tesoro del proprio dolore, ricordò di avere delle responsabilità. Come una spugna, il suo cuore asciugò e racchiuse in sé tutto il dolore di quei lutti, e lasciò la mente di Adalwin libera di agire. Il retaggio dell'addestramento endar gli aveva lasciato almeno questo, di buono: la capacità di fare fronte attivo ad ogni sofferenza che la maggior parte degli uomini subisce passivamente.

Adalwin prese una decisione. Si girò per tornare a guardare negli occhi i capi ribelli e dichiarò:

«Forse è così: forse sono ancora vivi. Ma, per il momento, sono assenti. E noi abbiamo un compito da portare a termine: non possiamo aspettarli con le mani in mano».

Quelle parole scossero i presenti. Tutti sapevano che il dolore che Adalwin nutriva per la perdita di Taide era superiore al loro. Ciascuno di loro aveva perso dei cari amici, un fratello o una sorella: ma lui aveva perso, oltre ad essi, anche la donna che amava.

Persino Lord Cassian, nella consapevolezza che soltanto Adalwin poteva comprendere ciò che lui provava, a quelle parole, riuscì a scuotersi dal dolore invalidante in cui la paura di aver perso per sempre la sua unica figlia e il suo nipotino non ancora nato lo aveva gettato.

Annuì e disse: «Dobbiamo vincere questa guerra. Noi... glielo dobbiamo».

Lord Kaleb si intromise: «E come la vinciamo, senza Evander? Appena noteranno la sua assenza, i ribelli perderanno speranza e non vorranno più combattere».

Allen dichiarò: «Non la noteranno».

Tuttisi voltarono sorpresi verso di lui, come a chiedergli spiegazioni.

Allen fece qualche passo verso il centro della stanza e, con evidente sicurezza, riprese a parlare.

«Ho studiato strategia militare per tutti questi anni, senza sapere se avrei mai potuto mettere a frutto le mie abilità e i miei studi. Ora è venuto il momento. Io e Evander avevamo già iniziato a preparare un piano, e, con le mie aggiunte e le mie varianti, quel piano può ancora essere messo in atto. Non vi garantisco la vittoria, ma vi assicuro che abbiamo buone probabilità di vincere. Quindi vi chiedo: fidatevi di me, e lasciatemi fare il lavoro per cui sono nato».

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