30. Una battaglia da combattere

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«Capitano, ls Draco-424 non ci ha seguiti» disse il pilota.

Evander si voltò verso di lui, annuì e non disse nulla.

Tutti lo guardavano in attesa di ordini, ma Evander stava lottando con il senso di panico in cui lo aveva appena gettato l'avviso del pilota e non riusciva a pensare lucidamente, né tantomeno a dare alcun ordine all'equipaggio.

Il pensiero che Jayden e Taide in quel momento si trovavano su una nave alla deriva perse nello Spazio, e che lui non poteva fare nulla per aiutarle era intollerabile e gli occupava tutta la mente.

Ma sapeva che non poteva rimanere lì, seduto sulla poltrona da capitano, limitandosi a pregare perché esse riuscissero a tornare ad Edresia, mentre di fronte alla Torre Prigioniera stava infuriando una battaglia a cui lui aveva dato inizio.

«Che cosa facciamo, capitano?» si arrischiò a chiedergli il pilota.

Evander cercò la forza per dimenticare temporaneamente la propria preoccupazione per Jayden, e rivolgere la propria mente a ciò che la Ribellione si aspettava da lui.

Dopo un momento, si alzò in piedi e dichiarò:

«Date ordine di prepararsi alla battaglia».

«Sì, signore» rispose il pilota, con evidente soddisfazione.

In meno di venti minuti, tutto l'equipaggio era uscito dalla nave ed aspettava i suoi ordini. Erano tutti armati, pronti alla guerra: sapevano bene a cosa andavano incontro ed erano lì per quello. Desideravano combattere per la libertà del proprio popolo, e non aspettavano altro che la resa dei conti.

Quella battaglia sarebbe stata decisiva, e di fronte a loro c'era colui che presto sarebbe diventato il loro imperatore.

Evander doveva mostrarsi all'altezza delle loro aspettative: non doveva far loro fiutare la propria preoccupazione e la propria paura.

«Mio signore, siamo pronti alla battaglia» gli disse il pilota, alla testa degli altri ufficiali.

Evander, che aveva indossato la propria armatura endar, uscì dall'aeronave per ultimo.

Il bianco della sua armatura ridipinta rifletté la luce rossa del sole di Edresia, mentre si avvicinava alla nera Torre Dravedia alla testa dei suoi uomini.




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Il mantello bianco della Fenice era a terra, macchiato di sangue.

Colui che lo indossava giaceva immobile sotto di esso.

Forse era morto.

Attorno al suo corpo, i ribelli si battevano accanitamente per impedire agli endar di arrivare a lui ed assicurarsi del suo decesso. Nei loro occhi si leggeva il terrore che quel decesso fosse già avvenuto.

Tutti sapevano che, se Alekym moriva, quella guerra non aveva alcun senso. Alekym non doveva morire.

I ribelli si scambiavano sguardi spaventati: non riuscivano a credere che il loro capitano fosse caduto.

Anche gli endar si guardavano l'un l'altro, in cerca di una conferma.

Nessuno riusciva a credere a quella morte così facile.

Avevano visto la Fenice combattere molte volte, ma mai lo avevano visto così lento ed impacciato: i suoi sensi sembravano rallentati, i suoi movimenti insicuri e goffi, i suoi colpi deboli e imprecisi.

Non riuscivano a comprendere come la Fenice, che tutti credevano insuperabile in combattimento, fosse caduta così in fretta e senza che nessuno vedesse chi le aveva inferto il colpo mortale.

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