Chapter 43: It's Her

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«Vieni qui piccola troietta» urla quel verme di Kris, dietro di me, con una rabbia che poche volte ho avuto il dispiacere di sentire sulla mia pelle, ma se le altre volte mi sarei immobilizzata all'istante, questa volta continuo a correre più che mai, senza far caso al dolore alle gambe per lo sforzo o ormai alla mia quasi assenza di ossigeno.

Corro, corro e corro, senza far caso ai suoi insulti o alle sue minacce: ormai non ho più niente da perdere, cosa potrà farmi di peggio se non tormentarmi per il resto dei giorni della mia vita? Perché so che quello che è successo in questi anni mi tormenterà per sempre. La morte sarebbe il favore più dolce e appagante che lui potrebbe farmi.

Voglio scappare, voglio abbandonare questa cazzo di vita schifosa che ormai non posso più sopportare. Penso solo a correre lontana da qui.
Ma un mio braccio viene afferrato con forza da uno degli scagnozzi di Kris, e non faccio nemmeno in tempo a ribellarmi dalla sua presa tirandogli un pugno così forte da spaccargli la mascella, che il mio viso sbatte rumorosamente e dolorosamente a terra.

«Lasciami!» urlo, anche se so che è completamente inutile, provando a debellarmi da quella presa ferrea che sono sicura lascerà un evidente livido al suo posto.
«Tienila ferma, deve ricevere la sua punizione per aver provato a scappare» io so benissimo cosa intendeva per "punizione" Kris, e il terrore si impossessa del mio corpo, della mia anima, ma ormai, dopo tutto quello che avevo subito da parte sua, mi accascio affranta e rassegnata al pavimento, priva di forze, priva di speranza. Niente lacrime, niente lamenti, niente di niente. Solo apatia profonda, era questo che provavo quando lui ha cominciato a tagliare con un coltello i miei leggins, precisamente nelle cuciture del sedere, al centro, insieme agli slip. Era questo che provavo quando lui si fece scivolare giù i pantaloni e i boxer, mentre due suoi scagnozzi mi tenevano le braccia spalancate ai rispettivi lati e appiccicati al pavimento ghignando appagati da quello a cui stavamo assistendo.

Era questo quello che provavo mentre lui si riappropriava del mio corpo senza il mio minimo consenso su un sudicio pavimento, mentre io ormai ero persa in un mondo creato da me nella mia testa, fatto di indifferenza e di apatia.

Io mi ero arresa, e mi arresi per tutte le volte successive.
Io mi ero arresa al fatto che da lì non sarei mai uscita.

«No!»
Perché? Perché la mia testa mi ha riportato a quel ricordo? Perché la mia testa non mi può lasciare in pace? Questa guerra tra la mia anima ormai corrotta delle violenze e i maltrattamenti verso la mia mente che ormai non fa altro che rinfacciarmi i miei peggiori ricordi mi sta uccidendo lentamente.

Ma dire che ci sono abituata, è sminuire la cosa. Guardo attentamente la stanza dove sono ora, e per un momento mi scordo dell'incubo. La comincio ad osservare attentamente, anche se illuminata dalla poca luce della luna che traspira dalla porta finestre interamente di vetro, coperte ai lati da delle velate tende di seta nere. Riconosco di essere in un grosso e imperiale letto a baldacchino, e davanti vedo due porte interamente nere opache come il colore che regna praticamente su tutta la stanza a parte che nelle murature bianche, e devono essere della cabina armadio, cioè quella composta da due ante scorrevoli, e quella del bagno, quella singola.

Questa deduco che sia la mia stanza, e deduco anche che sia stato Dylan a portarmi qui dopo che mi sono addormentata tra le sue braccia nell'idromassaggio. Infatti ho ancora i capelli umidi.

E solo ora mi rendo conto di essere sola.
Ma qualcosa, che mi vergogno così tanto di averla dimenticata, mi fa scattare in piedi.
Ma in tutto questo tempo, che fina ha fatto Wolf?!
So che i miei fratelli e tutti i miei amici non avrebbero mai non badato a lui per tutto questo tempo, e quando vedo la sua cuccia accanto al letto sulla mia sinistra un leggero sorriso mi dipinge il volto.

||There is a caos inside me|| Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora