PERCY'S POV
Domenica 10 gennaio, Manhattan (New York), ore 9:09.
Quella mattina mi svegliai in un letto che non era il mio.
Avevo un mal di testa lancinante e non ricordavo quasi nulla della sera prima, se non dei brevi flash.
Cos'era successo?
Di una cosa ero certo: c'era stato dell'alcol.
Alzai la schiena trovandomi seduto e mi portai una mano alla fronte, cercando di ragionare per rimettere a posto le idee.
Avevo preso la bottiglia, ero andato a casa di Jason e poi?
Niente.
Non ricordavo niente, tranne un vago sogno in cui incontravo un mio gemello e dormivo con un peluche che profumava di limone. Basta.
Mi tolsi la mano dalla fronte.
Appurando che non ricordassi molto, dovevo passare all'altra domanda: dove cavolo ero?
La risposta fu chiara appena misi a fuoco la vista.
Era la camera di Annabeth.
Cosa diavolo ci facevo lì?
Perché avevo dormito nel suo letto?
Lei dov'era?
Mi alzai di scatto dal letto e fortunatamente avevo i pantaloni addosso. Almeno non era successo niente mentre io non ero cosciente. Cioè: non che mi dispiacesse, ma almeno non avevo rischiato veramente di rovinare tutto, sempre che ci fosse stato ancora qualcosa da rovinare.
Feci una corsa fuori dalla stanza di Annabeth. La vidi in cucina di spalle, a cucinare qualcosa ai fornelli e sembrava abbastanza tranquilla da quello che potevo vedere da dietro.
Non sapevo minimamente cosa fosse successo la sera prima: sperai che il me ubriaco avesse fatto pace con lei, ma conoscendomi già da sobrio, sapevo che non ne sarei stato capace. Più che altro la cosa più probabile era che avessi detto qualcosa di stupido per peggiorare ancora di più la situazione.
Vederla lì, di spalle, senza sapere che ci fossi io dietro a guardarla, mi fece fare una delle cose più stupide della mia vita.
Scappai.
Come un codardo.
Perché io ero un codardo.
Ricordavo vagamente che Jason mi avesse chiamato in questo modo durante la conversazione della sera prima e io lo avevo negato, perché ero sempre stato abbastanza coraggioso da prendere i problemi in pieno petto. Ma quella volta non lo fui.
Ero spaventato all'idea di parlarle, di dover vedere il suo sguardo triste e deluso da me. Non potevo sopportarlo. Non potevo sopportare l'idea che Annabeth mi odiasse.
Tornai nella sua camera senza farmi sentire, presi la felpa che avevo notato fosse piegata perfettamente su una sedia, me la infilai e, di soppiatto come un ladro, uscii da casa sua.
Era la seconda volta che uscivo da quella casa senza dirle nulla, ma almeno la prima le avevo detto dritto negli occhi che la amavo. Adesso invece ero una pura e semplice codardia.
Camminai per le affollate strade di una New York domenicale con un fresco sole invernale per non so quanto tempo, forse qualche ora, per riflettere su tutto quello che era successo in quei giorni: lei era stata accettata ad Harvard e non mi aveva neanche detto di aver fatto domanda, io mi ero arrabbiato -da vero egoista qual ero-, le avevo urlato di amarla come se fosse il peggior insulto del mondo, lei non aveva risposto e io me ne ero andato. Come un codardo.
In quei giorni ero proprio la definizione di codardia: ero scappato quando non sapevo più cosa aggiungere alla discussione per avere ragione, avevo provato a parlarle mettendomi un minimo di coraggio e lei mi aveva rifiutato ma non avevo lottato per contraddire, ero fuggito dal dolore bevendo e, infine, ero scappato una seconda volta da casa sua non sapendo cosa dire per giustificarmi.
Mi odiavo.
Odiavo me stesso per quello che avevo appena fatto.
Avrei dovuto dirle che non mi importava che dovesse andare all'università a 334 km di distanza per quattro anni e che la sua felicità era la mia, ma la verità era che non volevo che fosse così. E mi odiavo anche, anzi, soprattutto per questo.
Mi odiavo perché sapevo cosa avrei dovuto fare. Sapevo quale fosse la cosa giusta da fare, ma non volevo accettarla.
Certo, anche lei aveva infranto la promessa. Ma quanto vale una promessa tra due adolescenti messa a confronto con il futuro di una dei due?
Lei doveva andare ad Harvard.
Non avrei dovuto essere la causa della rovina del suo promettente futuro da architetto.
Per tenerla stretta a me, l'avevo persa.
Cosa volevo fare? Rovinare il suo futuro per il nostro? Che poi, quale futuro avremmo potuto avere, se io mi fossi sempre comportato così?
ANNABETH'S POV
Quella mattina mi svegliai alle 8:39. Percy non era più avvinghiato a me come una cozza, ma la situazione si era invertita: ero io quella che lo stava abbracciando e per poco non lo stritolava!
Colta dallo sconvolgimento della scena, mi alzai di scatto in piedi.
Volevo evitare che si svegliasse all'improvviso, quindi presi alcuni vestiti dal mio armadio e andai a cambiarmi in bagno.
Per nascondere a mio padre che Percy avesse dormito a casa nostra non dovetti impegnarmi più di tanto, perché arrivata in cucina, trovai un post-it sul frigo che diceva: "Mi hanno telefonato dal lavoro e sono dovuto correre all'università. Non so che ora farò, nel caso cucina qualcosa tu per pranzo".
Mio padre lasciava troppo spesso post-it di questo tipo nell'ultimo periodo. Quando mi aveva dato la notizia del trasferimento, mi aveva promesso che sarebbe stato più presente e avrebbe lavorato meno, ma -non per sua volontà, sia chiaro- successe l'esatto opposto.
Decisi di prepararmi del semplice tè per colazione, anche perché non avevo molta fame.
Ero in ansia perché Percy poteva svegliarsi da un momento all'altro. Quindi, da un momento all'altro sarebbe dovuto arrivare il "discorso".
Volevo parlargli e dirgli che mi dispiaceva per tutto quello che gli avevo fatto, perché mi ero stancata di piangere tutto il giorno. Quindi dovevo capire se avesse intenzione di scusarsi o se sostenesse ancora la sua opinione che io non dovessi andare all'università di Harvard per stare con lui. In pratica: volevo capire se si fosse reso conto della stupidaggine che aveva fatto, così avremmo fatto pace, o che ne fosse ancora convinto pienamente, così avrei potuto semplicemente odiarlo e non piangere a causa sua.
Avevo deciso di non svegliarlo perché sapevo quanto Percy amasse dormire fino a tardi di sabato e domenica, ma quando ormai si erano fatte le 13:30 e dovevo cucinare il pranzo dovevo capire se si fosse svegliato, se per caso volesse mangiare a casa mia o se invece volesse tornare a mangiare a casa sua.
Allora decisi di andare nella mia stanza per chiamarlo.
Trovai il letto vuoto.
Se ne era andato senza che me ne accorgessi neanche.
Era scappato.
Non avevo più bisogno di fare il "discorso" per capire se odiarlo o no.
E su questa nota positiva, finisce il capitolo!
Comunque...
Vi è piaciuto il capitolo? Vi sta piacendo la storia in generale?
So che molto probabilmente mi state odiando, ma vi ricordo che uccidermi non sarà la soluzione, per motivi citati precedentemente (per ulteriori informazioni, vedi: Capitolo 41).
Ciao!👋
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I still need you ~ Percabeth
FanfictionLe giornate della mia vita erano tutte uguali e si svolgevano quasi sempre allo stesso modo, ma a me piaceva, non volevo che cambiasse una sola virgola. Ma nella mia vita, a cambiare, non fu solo una semplice virgola. Mi chiamo Annabeth Chase e vi r...