Capitolo 3

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La mattina del viaggio mi svegliai non cinque, non dieci, ma ben quarantatré minuti prima della mia sveglia: erano le 5:47 di mattina e non sapevo che fare, quindi, per la prima volta dopo non so quanto tempo, decisi di scegliere in maniera più accurata i miei vestiti e magari anche di truccarmi un po' -ovviamente solo gli occhi, perché non volevo esagerare-. Dopo dodici minuti a fissare le poche cose che avevo lasciato fuori dalle scatole del trasloco, decisi di andare sul mio solito stile: Converse che un tempo erano bianche, ma che erano ormai diventate grigie e rovinate; i miei jeans preferiti azzurri e la mia amata felpa bianca della Levi's, che adoravo alla follia.

Mi truccai, o almeno ci provai: non ero molto abituata a farlo, quindi mettevo pochissimo mascara sulle mie ciglia, e se provavo a metterne un altro po' mi sembrava troppo. Dopo dieci minuti, passati a provare a truccare l'occhio destro, per poi cancellare subito dopo, mi arrabbiai e ci rinunciai.

Poi arrivò il problema dei capelli, ma decisi di rimediare. Il mio cappello nero dei New York Yankees con una "N" e una "Y" intrecciate, a San Francisco non lo indossavo praticamente mai, perché era strano portare qualcosa legato ad una squadra che non è di quella città, ma ci ero molto legata, perché apparteneva a mia madre e lei lo indossava spesso, a prescindere di dove si trovasse e che squadra di baseball si tifasse in quella zona. Era una cosa che io e mio padre trovavamo molto divertente.

Alle 6:30 circa si era svegliato anche mio padre, quindi si preparò e alle 7:30, prima di uscire per l'ultima volta di casa, salutammo l'appartamento in cui ero cresciuta.

Inutile parlarvi della tristezza e delle lacrime che volevano uscire a tutti i costi.

Bussai a casa di Talia e lei, per una sola volta da quando la conoscevo, aprì subito la porta, facendomi capire che stava aspettando che bussassi da un momento all'altro. Senza dire niente mi abbracciò, ovviamente non facendomi respirare... Poi disse, quasi in un sussurro: "Mi mancherai, amica mia". Io non riuscivo a parlare bene, ma in qualche modo le dissi: "Anche tu" e poi dopo qualche secondo aggiunsi: "Mi raccomando: non metterti nei guai, che da New York non riuscirò facilmente a tirartene fuori...". Quando ci staccammo dall'abbraccio eravamo entrambe in lacrime, ma lei ebbe la forza di dire in tono di scherzo: "Mi raccomando non ti fare troppi nuovi amici, e soprattutto non sostituirmi". Io risi e poi la salutai definitivamente in lacrime. Il giorno dopo sarebbe stato il primo giorno dopo molti anni in cui non l'avrei vista neanche una volta.

Io e mio padre prendemmo un taxi e ci dirigemmo verso l'aeroporto.

Appena saliti sull'aereo indossai le mie cuffiette e mi rifugiai nella mia amata musica per tutte le cinque ore e ventisei minuti di volo.

Quando io e mio padre arrivammo all'aeroporto di New York, nel fuso orario locale era quasi ora di cena, quindi ci eravamo organizzati con i Jackson per cenare insieme a casa loro.

Mentre uscivamo dal terminal dell'aeroporto, vedemmo una donna sorridente con un cartello in mano che indicava "Chase", noi ridemmo e raggiungemmo Sally Jackson.

"Ciao Frederick". Sally abbracciò mio padre e poi salutò me: "E questa ragazza così alta deve essere la piccola Annabeth! Come stai?" e mi abbracciò in un modo così materno che mi ricordò molto mia madre, gli occhi per un attimo hanno iniziato a pungermi, ma mi trattenni, ovviamente.

Sally era esattamente come me la ricordavo: una donna solare e gentile, con dei lunghi capelli castani pieni di boccoli, ma con qualche striatura di grigio.

Mentre ci dirigevamo verso l'auto lei ci chiese come fosse stato il volo, come stavamo vivendo il cambio di fuso orario e continuava a guardarmi sorridendo, forse pensando a come fossi cresciuta in quegli anni.

Quando arrivammo all'auto, nel parcheggio c'era un uomo sul sedile dell'autista, mi chiesi chi fosse e perché fosse nella macchina di Sally, ma poi lei rispose alle mie domande: "Frederick, Annabeth, lui è mio marito: Paul Stockfis".

Io rimasi un po' sorpresa da quella affermazione, ma tesi la mano e mi presentai, un po' imbarazzata: "Salve, io sono Annabeth". Mentre io e mio padre ci sistemavamo nei sedili posteriori dell'auto, pensavo a cosa Percy pensasse di Paul: aveva un bellissimo rapporto con suo padre e non oso immaginare quanto sia stato distrutto dopo la sua morte, però Paul sembrava simpatico, e a quanto mi sembrava di aver visto in quei pochi minuti, Sally sembrava felice di stare con lui.

La Prius di Paul partì ed uscimmo dal parcheggio dell'aeroporto.

Durante il tragitto, Sally continuava a bombardarmi di domande su quello che avevo fatto negli ultimi dieci anni, mentre mio padre parlava con Paul e mi sembrava che andassero molto d'accordo. Infondo era probabile, perché sono entrambi degli studiosi molto appassionati: mio padre con la storia militare e Paul con la letteratura.

I still need you ~ PercabethDove le storie prendono vita. Scoprilo ora