CAPITOLO XIII

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La stanza più grande di tutto l'edificio, un tempo centinaia di persone andavano avanti e indietro sul piano, per poi salire su questi stretti corridoi, che si trovavano lungo tutte le pareti circolari, sorretti da pilastri di cemento, e gli ultimi tre piani, dove poteva salire solo il proprietario ed alcuni speciali addetti; impalcature stabili che arrivavano fino alla sommità del tetto, fatto a cupola, con tanto di vetrata sull' apice.

Ora, a ventitré anni dall'abbandono di questo cimelio, due ragazzi stanno osservando con occhi stupefatti la bellezza che si cela dietro ogni crepa che corre sui muri.

Non è la prima volta che io vengo qui. Eppure, mi ritrovo a guardarmi intorno alla ricerca di un nuovo mistero raccapricciante. Tutto è nato quando avevo undici anni; mia nonna se ne era andata da poco e, nel suo testamento, lasciava in eredità a me personalmente, il baule sotto il suo letto. No, dentro non ho trovato nessuna mappa del tesoro; solo stracci e stracci, ritagli di giornale che parlavano di questa centrale.

Fu allora che decisi di venire qui, tutti i giorni dopo la scuola. E tutto sembrava combaciare con gli orrori che ho letto nei giornali di mia nonna.

Proprio su quella cupola, che adesso guardo inorridito, sporge una piccola trave in ferro con la punta incurvata. Troppo in alto e non abbastanza grande da sorreggere un macchinario, ma abbastanza per appenderci un uomo. Ed è lì che il proprietario si è ucciso, quel freddo 20 novembre di ventitré anni fa. Non hanno mai capito il motivo di quel gesto estremo, il che mi ha sempre fatto credere che non sia stato lui ad appendersi.

La prendo per un braccio e inizio a salire per le scale. Debby sussulta quando la afferro,   poi si lascia portare verso l'ultimo piano di impalcature, dove finalmente mi fermo e mi giro per guardarla.

-Eccoci arrivati.- affermo.

-Dove siamo?- chiede guardando il piccolo lenzuolo appeso in modo precario alle mie spalle.

Mi giro e scosto il telo che fa da entrata alla mia "tana" adolescenziale.

È ancora tutto lì, come lo avevo lasciato; cuscini pieni di muffa per terra sparsi su un tappeto che originariamente era nero, mentre adesso ha assunto un colore indescrivibile. Il mio Gameboy blu, la mia spada con la quale fingevo battaglie fantastiche a cavallo di un drago sputafuoco contro il più potete Signore Oscuro di tutti i tempi, il mio quadernino degli scarabocchi, i miei pennarelli,  la mia palla da calcio, Dio solo sa quante volte andava a finire di sotto e io facevo avanti ed indietro di corsa per andare a riprenderla.

-Questo è il mio rifugio, la mia tana.- recito in modo solenne le parole, tenendo una mano sul petto  -Chiunque entri in questo posto senza la mia personale autorizzazione, verrà punito, chi rivelerà ad anima viva l'esistenza della Tana verrà punito allo stesso modo ed in seguito bandito per sempre!-  rido, davvero ero così stupido?

Debby imita le mie mani e poi annuncia

-Giuro di rispettare sempre e comunque la legge della Tana, senza mai infrangere regola alcuna per nessun motivo.- ride anche lei. Come ci riesce?

Non a ridere, quello siamo capaci tutti. Ma come riesce a farlo così spontaneamente, naturale, quasi liberatorio. Non la vedo mai fingere di ridere, è sempre una cosa voluta, altrimenti non lo fa proprio. Questo è un aspetto che mi piace di lei, è ferma nelle sue decisioni. 

O è bianco, o è nero.  Io invece, vedo tutto il mondo una gigantesca palla grigia.

-Questa che cosa è?- dice guardando una cosa alla sua sinistra. La guardo bene e noto che è arrossata in volto; si china per prendere l'oggetto e poi mi porge...

No. Pensavo di averla buttata.

La copia di una rivista vietata ai minori di diciotto, che io avevo scaltramente rubato ad un giornalaio. Che figura di merda.

A Big White SheetDove le storie prendono vita. Scoprilo ora