Capitolo 1

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Beatrice

Uno squillo, un piccolo trillo, un rumore che ormai era diventato il mio peggior incubo. Tolsi gli occhiali e li posai sulla scrivania tempestata di documenti e manoscritti, strinsi gli occhi e portai le mani tra i capelli per cercare di lenire il mio mal di testa. Potevo farcela, erano già le sei e tra poco meno di un'ora mi sarei ritrovata accovacciata sul mio comodo divano a sorseggiare vino e a godere del mio riposo. Un altro squillo...

" De Luca Editori, come posso esserle utile?" sforzai la voce, in quel momento avrei voluto fare tutto ma non fingere di essere affabile e gentile dopo ore di lavoro sfiancante.

" Beatrice , possibile che ancora non riconosci il numero interno?" alzai gli occhi al cielo, avrei voluto dirgli di chiudere il becco insieme ad una miriade di parole poco educate ma strinsi i denti e mantenni il mio solito contegno.

" Mi perdoni direttore non ho..."

"Bando alle ciance Mancini, vieni nel mio ufficio e porta tutti i manoscritti di oggi"

Riattaccò senza aspettare risposta. Pensai a tutte le ragioni che non mi permettevano di licenziarmi, sbuffai, posai gli occhiali sul mio naso e presi con me i cinque malloppi che Matilde, una delle stagiste, mi aveva gentilmente portato quella mattina.

Percorsi in silenzio il piccolo corridoio che mi separava dall'ufficio , sguardo basso e mente offuscata dalla stanchezza, sentivo solo il ticchettio dei miei tacchi sul parquet. Mi chiesi come mai riuscissi a sentire i miei passi, ma sorrisi per la sciocchezza dei miei pensieri. Era Sabato e gli unici due individui in quell'enorme gabbia di vetro eravamo io e lui.

Pochi minuti, pochi istanti ancora e anche io sarei stata libera.

La porta era semi aperta, lui mi aspettava dentro e da quanto urlava era evidente fosse coinvolto in una conversazione animata, ma anche quello per me non era una novità.

Non mi disturbai a bussare, spinsi la porta con la spalla tenendo ben saldi i fogli tra le braccia; De Luca camminava avanti e indietro per la stanza sembrava un leone in gabbia pronto ad azzannare chiunque ci fosse stato all'altro capo del telefono.

Mi diressi alla sua scrivania dove posai gli ultimi manoscritti della giornata per poi voltarmi incrociando le braccia al petto. Lui voleva parlarmi e io dovevo attendere che finisse la chiamata in silenzio, come una brava assistente. Profittai di quei momenti per esaminare lo spazio circostante, non era la prima volta che entravo in quella stanza, anzi direi che potesse essere considerata più casa mia quell'ufficio che l'appartamento in cui vivevo. Non mi piaceva il colore alle pareti, era asettico privo di vita e non lo consideravo nemmeno un colore; era un misto tra bianco e giallo che non tendeva né verso l'uno né verso l'atro, era solo un risultato pessimo di un opera mediocre. Un movimento mi destò, De Luca si era appena stravaccato sul divano facendo cadere decine di fogli sul pavimento. Possibile che un uomo come lui potesse essere così disordinato? Il suo ufficio era un macello, libri, documenti e manoscritti erano sparsi per tutta la stanza e non si curava nemmeno di raccoglierli quando cadevano per terra.

Pretendeva che lo facessi io, pretendeva tutto da me, che rispondessi al telefono, che sistemassi la sua agenda che prenotassi viaggi, hotel e qualunque cosa di bislacco gli venisse in mente. Quando per la prima volta misi piede alla De Luca Editori, avevo degli obbiettivi precisi, avrei lavorato sodo per farmi notare e al momento opportuno avrei presentato il mio manoscritto.

Mi chiedevo tutti i giorni cosa ne fosse stato del sogno di quella ragazza.

Erano passati tre anni e in quell'istante il mio unico obiettivo era far tacere quel buzzurro e uscire di lì.

Una Divina TragediaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora