3. Poi scopri che non è un caso

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Jonathan

Le casse che ho collegato in ogni stanza passano una vecchia canzone dei Beatles facendomi canticchiare qualche strofa finché mi sistemo i capelli, non lasciandone nessuno fuori posto. Il sole filtra dalle tapparelle abbassate facendo apparire la giornata più calda di quello che in realtà segna l'applicazione sul telefono. 

Accendo la macchinetta del caffè e mentre aspetto che quel liquido trasparente si trasformi in qualcosa di più forte e scuro, fisso lo sguardo sulla cornice che racchiude un me più giovane che tiene sulle spalle un altro ragazzo. Sui nostri visi un sorriso che non morirà mai e che nessuno potrà mai cancellare. Molte volte ho pensato di toglierla dalla mensola dove è appoggiata, esattamente come ho fatto nel mio ufficio, ma non ne ho il coraggio. E per quanto mi faccia male vederci ancora assieme, il non vederci più sarebbe sicuramente molto più doloroso. 

Prendo la tazza fumante e a piccoli sorsi butto giù la mia prima dose di caffeina per poi uscire di casa. 

Salgo in ascensore mescolandomi ai vari dipendenti che lavorano nel mio stesso palazzo e quando il campanello avvisa l'arrivo del mio piano, scendo diretto verso il mio ufficio. 

Passo dritto come sempre, ma non appena sento qualcuno salutarmi mi fermo e mi volto indietro. 

Nascosto dietro alla scrivania della mia segretaria c'è un ragazzo che mi sorride gentile, occhi limpidi e di ghiaccio, i capelli lunghi ordinati raccolti in una piccola coda e un abito di bassa qualità. 

"Lei chi è?". Domando sia sorpreso che confuso. 

"Il suo nuovo segretario". La voce decisa, senza tentennamenti. 

Lo guardo e ripenso alla telefonata avuta con mia mamma solo il giorno prima e all'improvviso comprendo la sua allegria. 

"Come ha fatto ad avere questo posto?". Faccio due passi per raggiungerlo, la scrivania tra di noi. 

"Ho fatto un colloquio". Come se gli avessi appena chiesto una stronzata. 

Ma la verità è che solitamente mia mamma lascia passare solamente ragazze, sicuramente per via del mio passato.  "Le hanno detto quali saranno i suoi compiti?". 

Annuisce. "Certamente". 

È sicuro e questo mi porta a chiedermi se quella solidità sia solo di facciata o se faccia parte sul serio di lui. E all'improvviso mi ritrovo interessato alle scommesse che verranno fatte su questo ragazzo. "Il suo nome?". 

"Samuele Arreni". 

"Immagino che avrà già saputo che non è facile lavorare per me". Lo scruto in cerca di qualche frattura nel suo carattere. 

"Ho sentito qualcosa al riguardo". Ammette e questa onestà mi spiazza perché tutte le segretarie precedenti hanno sempre mentito. 

Lo guardo ancora, tamburello un dito sul desk e allontano tutte le domande che vorrei fargli, preferendo scoprire attraverso il suo lavoro le mie risposte. "Non è necessario l'abito, basta un jeans e maglione". Indico la sua giacca. 

I suoi occhi si posano su di me e poi scendono sul mio corpo e prima che possa dire qualcosa lo anticipo. "Li indosso solo quando devo incontrare i clienti". Dico riferendomi al mio vestito d'alta sartoria. 

"Bene, grazie". Mi risponde e mi ritrovo a chiedermi cosa c'abbia visto mia mamma in lui. 

Il telefono che squilla nella mia tasca mi ridesta e senza aggiungere altro rispondo e mi chiudo dentro al mio ufficio. 

Samuele

Sono agitato e questo è altamente innegabile e nonostante mi sia stato spiegato passo per passo quello che sarei andato a fare, ritrovarmi seduto a quella sedia sul serio è tutta un'altra questione. Sto riorganizzando secondo le mie abitudini i vari appunti e aggiungendone altri quando nella mia mente lo vedo passare davanti a me come se fossi invisibile. Non so ancora se avrei dovuto stare in silenzio o se salutarlo era la mossa giusta da fare e non serve a niente il mio continuare a rimuginarci sopra perché ormai l'attimo è andato e non posso più tornare indietro. Eppure nonostante tutte le persone mi avessero messo in guardia dal suo caratteraccio, a pelle non mi ha dato l'impressione di essere così cattivo.

Sospiro e vado avanti, segno ed evidenzio i vari appuntamenti in modo da ricordarglieli al bisogno  e quando squilla il telefono rispondo alla mia prima telefonata.

"Ufficio del signor Narri, come posso aiutarla?". La voce che forse trema un po', ma cerco di restare calmo, attento.

"Mi passi Jonhatan". Lapidaria, senza nemmeno un saluto.

Alzo lo sguardo verso il suo ufficio, le tende sono aperte e lui sta scrivendo al computer, sembra impegnato e la voce femminile che lo cerca sembra non c'entrare nulla col lavoro.

"Mi spiace, ma al momento non è in sede. Se vuole può lasciarmi un messaggio". Le dico gentilmente, ricordandomi che mi è stato detto dalla donna che mi ha assunto di usare il mio buon senso.

"Stronzo. Gli dica di passare in hotel sta sera". E prima di lasciarmi il tempo di replicare ha già riattaccato.

Credevo che avrei gestito il suo lavoro e non la sua vita privata, ma a quanto pare i pettegolezzi erano fondati su storie vere. Segno l'appunto per non dimenticarmene e poi ritorno ai miei compiti.

La mattina scivola via abbastanza velocemente e quando arriva l'ora di pranzo lo vedo uscire dal suo bunker.

"Ci sono alcuni messaggi". Gli dico, bloccandolo prima che mi sorpassi senza dire una parola.

Si ferma e appoggia una mano sulla scrivania. "Non mi hai passato le chiamate?". Mi domanda.

"No. Ho chiesto se erano più o meno urgenti e dato che nessuno lo era ho creduto fosse meglio non interromperla". Resto a guardare il suo cipiglio non riuscendo però a decifrare quello che sta pensando.

"Dimmi".

Post-it dopo post-it leggo tutto quello che ho scritto fino ad arrivare all'ultimo. "Questi erano le chiamate di lavoro, poi ne ha ricevuta una privata".

Continua a fissarmi come se fossi un qualcosa di strano, informe.

"E non mi hai passato nemmeno quella privata?". Le sopracciglia aggrottate.

"Ho ritenuto non fosse davvero importante".

Storce la bocca per rifiutarsi di sorridere. "Chi era?".

"Non ha lasciato il nome, ma solo di incontrarvi in hotel sta sera". Cerco di non imbarazzarmi e con la scusa di rimettere a posto i biglietti distolgo lo sguardo dal suo.

"Questo poteva essere veramente importante però". Mi stuzzica.

Penso e valuto. Mi chiedo se non mi stia mettendo alla prova. "Dal tono della signora ho dedotto che lei non l'avesse più richiamata e se non lo ha fatto avrà avuto i suoi motivi, inoltre ha chiamato l'ufficio e non il suo numero personale e questo mi ha portato a pensare che forse non glielo ha dato, perciò ho dedotto che non fosse veramente importante ".

Zitto. Non dice nulla. Ci guardiamo e basta, ma alla fine è lui a cedere. "Esco a pranzo".

"Bene". Rispondo e mi risiedo sulla sedia dalla quale mi ero alzato per parlargli.

"Vai a casa per oggi. Ci vediamo domani". Mi dice e non capisco se ho fatto qualcosa di sbagliato.

"Non ho finito l'orario di lavoro".

"Sono il capo, decido io". E senza aggiungere altro esce dallo studio.

Resto a guardarlo allontanarsi e prendendolo in parola spengo il computer, prendo la giacca ed esco anche io.

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