7. Agli errori che portano felicità

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Samuele

Alzo gli occhi non appena leggo quella sua ultima mail e li faccio vagare in giro per la stanza che tutto d'un tratto si è fatta silenziosa alle mie orecchie lasciando solo il battito del mio cuore a martellarmi nella testa. Niente ha senso, né che il mio respiro si sia fatto all'improvviso più corto né tantomeno che lui sia qui, eppure non appena lo trovo lo stomaco fa una capovolta. 

Metto in tasca il telefono e poi mi volto verso Elia che sta ridendo per una battuta appena fatta. "Eli, devo andare". Gli dico avvicinandomi al suo orecchio.

"Dove?". Mi chiede posando un bacio sulle mie labbra, il sapore salato e amaro della birra. 

"È saltato fuori un problema al lavoro". Perché la verità è che non ho nessun vero motivo per andarmene se lui è lì con me. 

"Sono le undici. Non puoi fare domani?". Mi guarda come se stessi scherzando e mi sento una merda a mentirgli, ma la verità è che non voglio stare ancora là con loro. 

"Dobbiamo risolverlo prima di domani mattina". Invento, non sapendo se possano davvero esistere questi problemi in una rivista. 

Sbuffa e alla fine alza le spalle lasciandomi alzare dalla sedia sapendo che non può fare nulla per trattenermi.

Mi affretto verso l'uscita e quando l'aria fredda della sera mi colpisce il viso, quel leggero stordimento dovuto alla birra svanisce dando spazio dentro alla mia testa solo per quello che sto facendo. 

Mi fermo sul marciapiede e punto gli occhi sul lato opposto della strada dove, illuminato da un lampione, c'è il mio capo. Ingoio e poi attraverso quella striscia di asfalto che si è fatta rovente. 

"La scusa del capo stronzo funziona sempre". Lo sento dire non appena mi fermo di fronte di lui. 

Lo osservo fermandomi sul suo viso. I capelli castani sono spettinati, le guance un po' rosse, ma non so se sia imbarazzo, freddo o l'alcol, gli occhi languidi e i lineamenti distesi. E nel fissare quelle due pozze marroni mi ricordo che si dice che chi li ha del suo colore è perché è stato baciato dal suo angelo custode poco prima di nascere. "E tu hai usato una scusa?". Gli domando, sapendo che aveva appuntamento nell'hotel vicino dato che glielo avevo fissato io. 

"No, ho solo chiuso più in fretta la serata". 

Ci guardiamo senza capire questo vortice che ci avvolge di cosa è fatto, lasciandoci indecisi, traballanti su un cornicione. 

"Ora posso andare a casa". Dico, sebbene mi sembri strano, quasi sbagliato. 

"E se ti offrissi da bere?". Le parole che si precipitano fuori dalla sua bocca, come se dovessi scomparire da un momento all'altro lasciandolo solo. 

Mi mordo le labbra e infilo le mani nelle tasche del cappotto per non passarmele tra i capelli. In ufficio ci parliamo a mala pena e a parte qualche domanda scomoda appena conosciuti, ogni volta che si rivolge a me è per lavoro. Eppure nonostante questo nostro muro tra di noi ora siamo qui, uno di fronte all'altro e una proposta che suona quasi indecente. 

Quasi. 

"Ho saltato la cena". Gli dico allora. 

Si stacca dal lampione sul quale era ancora appoggiato e con le sue gambe lunghe si avvicina a me. "Allora ti offro la cena". Mi fa l'occhiolino e poi si incammina lungo il marciapiede, lasciandomi esterrefatto e per la prima volta da quando ho messo piede in quell'ufficio lo guardo con gli occhi di un ragazzo. 

Jonathan

"Non posso salire". Mi dice non appena arriviamo alla mia Aston Martin parcheggiata nel piazzale. 

Lo guardo cercando di decifrare la sua espressione, ma la poca luce me lo impedisce. Faccio scattare la serratura e apro la porta del passeggero. "Sali". Il tono perentorio che solitamente uso a lavoro ha il suo effetto e senza aggiungere altro lo vedo sedersi. 

Chiudo la portiera e poi lo raggiungo. Non ho mai fatto salire nessuno in quest'auto, né tantomeno mi sono mai interessato di aprire la portiera al fortunato di turno quelle rare volte che sono uscito con una macchina, eppure eccomi qui a mandare all'aria tutto di me. 

Guido lungo le strade quasi deserte della sera senza chiedergli dove portarlo, sapendo che non oserebbe mai optare per qualcosa di decente, proponendomi piuttosto la prima bettola che gli viene in mente.

Il silenzio tra di noi è strano, ma non impacciato. Di quelli in cui si vorrebbe parlare, ma si è insicuri di cosa dire. 

Fortunatamente il viaggio dura poco e quando arriviamo al ristorante la reazione sul suo viso mi appaga della mia sfrontatezza. Avrei potuto scegliere decisamente di meglio, ma so che lo avrei messo a disagio e questa spaghetteria mi sembrava un giusto compromesso tra le sue e le mie abitudini. 

"Magari è tardi". Mi dice scendendo e guardando l'ora sullo schermo del suo telefono. 

"O magari no". Gli rispondo, sapendo che solitamente restano aperti ben oltre la mezzanotte. 

Quando entriamo e vede il locale ancora pieno, rilassa le spalle e sul suo viso appare un sorriso genuino a cui non sono abituato. 

Ci sediamo in uno dei tavoli vicino alla finestra sul lato interno, che offre una vista su un piccolo parco illuminato da alcuni punti luci sparsi nell'erba e con il menù in mano scegliamo cosa mangiare. 

"Cosa ci facciamo qui?". Mi domanda, trovando il coraggio per porre quella domanda che probabilmente gli gira in testa da un po'.

"Mangiamo". Evito di rispondere a quello che in verità mi sta chiedendo. 

"Allora cosa ci facevi al pub?". Si mette comodo appoggiando la schiena sullo schienale e prendendo un po' di distanza da me. 

"Non potevo trovarmi lì?". Verso dell'acqua in entrambi i bicchieri. 

"So che eri impegnato". Dritto al punto. Ormai deve essere così abituato ai miei appuntamenti da non farci più nemmeno caso. 

"Ho scopato e poi sono uscito". Ed è la verità, solo non tutta. 

"Interessante sapere che prima hai scopato e ora sei qui con me". Espone i fatti. 

"Interessante sapere come prima eri col tuo ragazzo e ora sei qui con me". Ribatto, ripetendo la sua stessa affermazione. 

Mi guarda e ancora una volta si prende tra i denti il labbro, torturandolo. 

"I suoi amici mi annoiano". Assottiglia lo sguardo quasi a volermi sfidare a pungolarlo. 

"E il tuo ragazzo no?". Lo istigo. 

"No. Tu perché scopi e basta?". Azzarda, come se stesse dando libero sfogo a tutte quelle domande che vorrebbe farmi in ufficio, ma che però si tiene per sé. 

"Perché è difficile amare ancora". Alzo le spalle. 

Eppure mentre pronuncio quelle parole che ormai conosco a memoria, sulla lingua mi resta un sapore amarognolo, come se fossero scadute, andate a male. Ed è strano. 

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