23. Incassare i colpi

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IAN

Qualcuno una volta ha detto che la rabbia è come il vento, prima o poi se ne va ma nel frattempo ha già spazzato via tutto. Ho sempre pensato di avere un grosso problema con tale emozione, non so gestirla, mi divora completamente e mi rende uno stronzo senza anima, se la mangia lei, pezzo per pezzo e sono sicuro che di me non resterà poi molto se continuo a lasciarla fare.

Le parole di Alex si replicano nelle mie orecchie come una terribile cantilena, tipo quelle dei film horror che predicono qualche spaventoso jumpscare. Continuo a ripetermi che la sua sia stata una lecita reazione alla mia totale mancanza di empatia nel dirle ciò che le ho detto, ed è per questo motivo che se da un lato sono completamente in balia della mia rabbia, dall'altro non riesco in nessun modo a fare a meno di sentirmi in colpa.

E questa sensazione del cazzo, la colpa, mi manda in frantumi il cervello perché di cose orribili ne ho fatte, alcune senza misura, eppure io il senso di colpa non l'ho mai provato.

Sono Ian Woods e me lo ripeto da qualche giorno per evitare di dimenticarmene; la gente ha paura del mio nome, so come far soffrire una persona, fisicamente e non, so mettere gli affari prima di ogni altra cosa, sono abituato a fare del male, a vivere con la costante consapevolezza di aver rovinato la vita di qualcuno ma malgrado ciò, dopo ben due settimane, non riesco a dimenticare ciò che io e Alexandra ci siamo detti nel suo ufficio. Questo mi destabilizza...e mi fa incazzare.

Il cortile è ricolmo di gente in divise arancioni o grigie che cercano di accontentarsi della poca luce del sole che ci concedono di vedere, a tutti sta bene così: il Riviera Center è meglio dei penitenziari e comunque, in generale, ci trattano bene.

-Woods.- un secondino richiama la mia attenzione e per un attimo la flebile speranza che Alex mi voglia vedere si irradia in me.

-Hai una visita.- senza prendermela troppo, ormai consapevole di aver perso la possibilità di continuare le mie "sedute di terapia", mi alzo dal tavolo su cui avevo appoggiato il culo e cammino verso la guardia.

Bianco è ancora il colore di queste cazzo di mura.

Nella sala ricevimenti tutti i tavoli sono vuoti, se non quello dove una testa quasi rasata a zero mi sorride coi suoi tre denti argentati.

Artem è mio fratello, l'unico di cui, oltre Cloe, mi sia mai importato qualcosa. Avevamo sei anni quando ci siamo conosciuti in un parchetto malandato di Overtown e da quel momento in poi lui è stato il mio unico amico.

Mi avvicino al tavolo dov'è seduto e ci salutiamo con un veloce abbraccio fraterno.

-Allora stronzetto che si dice?- mi chiede lui, giocando con lo stuzzicadenti che si ostina a portare tra le labbra.

Artem si drogava, ma non come tutti noi solo per divertimento, lui era un vero e proprio tossicodipendente e quando gli ho pagato la riabilitazione mi sono fatto promettere che non avrebbe più toccato alcuna sostanza stupefacente, così ha trovato il modo per non pensare alla droga: lo stuzzicadenti.

-Solito.- mento alzando le spalle.

-Solito? E dai amico, dimmelo.- aggrotto le sopracciglia perché sono sempre meravigliato dalle sue capacità di afferrare se uno sta mentendo.

-Dopo la corsa mi sono scopato il nemico.- ammetto.

-Non ti biasimo fratello, chi non l'avrebbe fatto?- ridiamo e ci raccontiamo cazzate per un po', fin quando non decido di rendere la conversazione più seria.

-Come stanno le cose lì fuori?- Artem si muove a disagio sulla sedia, cercando una posizione a lui più favorevole.

-Non bene, Ian. Jace è ancora in ospedale e quindi non abbiamo più informatori, chiaramente Mitch non vuole sentir parlare di lui perché già di per sé è una spia, per lo più è una spia incapace.- annuisco, comportamento proprio di Mitchell.

High-over the limits.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora