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Due anni, sette mesi e diciotto giorni prima dell'esecuzione

Il giorno dopo venne svegliato da un brutto presentimento.
Si lavò e si vestì, mentre il continuo formicolio alla base del collo non gli si voleva scrollare di dosso e proprio mentre stava per uscire, una guardia lo chiamò da fuori, con fare urgente.
"Cosa succede?"
"Si tratta dei prigionieri."
Athelstan non si fece dire altro.
Il cielo si stava tingendo di un grigio-giallognolo, sul versante est, mentre dal lato opposto regnava ancora la notte più profonda. Alcuni soldati erano già svegli, girovagavano per il campo assonnati, in mano un piattino di stagnola con la colazione, altri, svegli dal turno di notte, erano raccolti alla tenda dei prigionieri e si chiedevano cosa fosse successo.
"Ranpo è entrato poco fa e..."
Ranpo stesso, l'elfo che il giorno prima si stava occupando delle torture, le trecce sciolte sulla schiena, si avvicinò al comandante, con un'aria mortificata. Si inginocchiò ai suoi piedi.
"Comandante, è colpa mia, ho lasciato la tenda sguarnita e—"
"Alzati." Athelstan lo liquidò così e passò oltre per vedere cosa fosse successo. Con un semplice gesto disperse la folla e quando gli occhi dei soldati più curiosi furono abbastanza lontani, entrò.
Si fermò dopo non appena un passo, gli occhi spalancati dalla sorpresa.
Si era aspettato di tutto: che fossero riusciti a scappare, che fossero riusciti a porre fine alla loro vita... ma non quello. Era ben peggio di ogni scenario immaginabile.
Si avvicinò piano a quei corpi sanguinolenti.
Erano state tagliate le dita ad una ad una fino a lasciare un palmo monco, erano stati recisi i genitali di ciascuno e lasciati a terra abbastanza in là da fare in modo che potessero vederli, infine era stata tagliata la lingua.
Athelstan rimase impietrito per un po', osservando l'operato con attenzione, il modo attento in cui erano state disposte le dita sul pavimento, l'ordine usato, la tecnica, poi, con orrore notò che i loro petti ancora si alzavano e si abbassavano. Erano vivi.
Ranpo entrò e fece per dire qualcosa, ma Athelstan lo fermò.
"Senti?" Chiese. L'elfo allora si mise in ascolto. "Sono ancora vivi," continuò Athelstan.
Ranpo si irrigidì al suo fianco. "Chi potrebbe mai fare una cosa simile?"
Il comandante aveva qualche idea.
Sospirò rumorosamente, indeciso sul da farsi, in conflitto con se stesso. Si chiese, curioso, che cosa avrebbe fatto un umano al suo posto, loro che erano tanto pieni di etiche e morali. Ma per l'ennesima volta capì che per un elfo, immedesimarsi in un umano non era possibile. "Li avremmo uccisi lo stesso."
"Ma comandante, questo—"
"È il frutto della rabbia umana," zittì il sottoposto. "Non una parola. Nessun dettaglio deve uscire da questa tenda."
L'elfo abbassò la testa, come un cucciolo rimproverato dalla madre. "Sissignore."
"Bene. Uccidili e poi falli bruciare."
Ranpo annuì. "E i responsabili..."
"Ci penserò io."
L'elfo sembrava impensierito, ma non fece altre domande e rimase con il pugno sul petto finché Athelstan non fu uscito.

Quella sera Athelstan si scusò con gli elfi di grado maggiore con cui di solito cenava e iniziò a passeggiare per il campo.
La separazione tra gli elfi e gli uomini del Di Sopra era netta. Nessun segno di simpatia. Attorno ai diversi focolari, si trovavano o solo uomini o solo elfi e nessuno osava andare dall'uno o dall'altro gruppo per qualsiasi cosa.
Athelstan si fermò a parlare con i soldati in diversi focolari, sia uomini che elfi, i primi più disdegnosi dei secondi, infine, trovò il suo obiettivo. Uno degli ultimi focolari era il più grande del campo; attorno ad esso erano raccolte almeno una cinquantina di uomini e lì, al centro, stava il vero fuoco, la vera calamita. Elijah Kohen rideva e annuiva alle battute dei suoi uomini, mangiava con calma la sua porzione e non parlava molto. Al suo fianco, piccola e composta, c'era la ragazza, i capelli rosso fuoco legati in una treccia, gli occhi bassi sul piatto, parlando ogni tanto a bassa voce con un ragazzo al suo fianco del quale Athelstan non sapeva molto se non che era un ottimo cecchino.
Non si fece prendere dalla fretta. Si fermò ad altri focolari, come per far sentire al grande gruppo il suo arrivo. Di fatto venne notato dai più esterni che, tra gomitate e passaparola fecero arrivare la notizia al ragazzo dagli occhi d'oro. Elijah non si scompose e continuò a conversare amabilmente, coinvolgendo Ava e facendola sorridere.
"Signori," Athelstan fece la sua apparizione con un sorriso a labbra chiuse. "Posso unirmi a voi?"
Molti degli uomini tentarono di nascondere le occhiate sospettose, altri lo squadrarono da capo a piedi, come per assicurarsi che non portasse armi e non fosse pericoloso.
"Comandante Athelstan," esclamò Elijah, sollevando la testa su di lui. "È il benvenuto. Si sieda qui." Il ragazzo fece cenno a un uomo accanto a lui di spostarsi e questo ubbidì senza controbattere e lasciò il suo sgabello—una cassa per le provviste—all'elfo che si sedette con la solita eleganza.
Era strano, pensò, perché in tutti gli altri focolari, dopo essersi seduto, era diventato lui il centro del gruppo, colui che tutti osservavano e a cui si riferivano, invece lì, era come uno dei tanti accanto a Elijah Kohen, non possedeva il posto, non era il Comandante, non aveva potere.
Elijah Kohen. Che ragazzo interessante.
"Forza, continua con quella tua storia..." Elijah indicò uno degli uomini dall'altro capo del cerchio e questo si ritrovò un attimo senza parole, le guance tinte di rosso e i piccoli occhi scuri che passavano da Elijah ad Athelstan. "Eri arrivato a descrivere quel vecchio pazzo che aveva preso il tuo gruppo di pecore per un'orda di giganti, no?"
Così la storia dell'uomo continuò allegra e gli uomini sembrarono dimenticarsi della presenza del Comandante.
"Di cosa doveva parlarmi, comandante?" Domandò a bassa voce Elijah, l'attenzione sempre fissa sull'uomo che raccontava.
Athelstan sospirò profondamente, fingendo anche lui di essere interessato alle pecore-giganti. "È stato un lavoro di precisione, quello della scorsa notte."
Elijah non riuscì a reprimere un sorriso. "Che dire... le cose o le faccio bene o non le faccio."
"Quindi è stata opera tua."
"Aveva qualche dubbio?"
"No."
"Subirò una punizione?"
"Vuoi essere punito?"
Elijah rise con una punta di amarezza. "È lei il comandante. La mia vita è nelle sue mai, può farci quello che vuole."
Ad Athelstan non piacque come mise le cose, anche se tutto sommato quelle parole non andavano tanto lontane dalla realtà. Appoggiò gli avambracci sulle ginocchia e si sporse più vicino al fuoco, le fiamme gli riscaldarono il viso, anche se non sentiva molto la differenza. Provare piacere o dispiacere per il caldo o il freddo... quelle erano sensazioni troppo umane.
"Hai confessato subito," ragionò tra sé. "Ed è ovvio che quello non sia stato il lavoro di un solo uomo."
Elijah si fece un po' più serio. "Ovviamente," disse lentamente, dopo aver ponderato con attenzione la propria risposta.
Athelstan sospirò di nuovo e mise le mani sulle ginocchia per alzarsi. "Non verrete puniti. Siete fortunati che per gli elfi, al contrario degli umani, la vendetta sia lecita." Questa era una tra le tante motivazioni che il Comandante aveva usato come scusa per la sua stessa condotta: quegli uomini erano già stati condannati a morte e si erano rivelati inutili oltre che spregevoli; Elijah aveva scelto il momento giusto—ed è qua che Athelstan tentennava. Come? Che uno degli uomini seduti al focolare avessero origliato le conversazioni avvenute nella tenda? Che fosse riuscito a portare dalla sua parte un elfo?
Che la vendetta fosse stata di un'atroce precisione e brutalità gli importava poco: in quanto elfo non provava alcuna pena per gli uomini del Di Sotto, né credeva che la vita di un umano fosse preziosa. Eppure...
Eppure era certo che in una normale circostanza avrebbe punito il responsabile per evitare che un fatto del genere ricapitasse. Quindi perché non con Elijah Kohen? Perché non con loro?
"Vi siete vendicati. Spero solo vi sentiate meglio." Detto questo si alzò e fece per andarsene, ma il fiato gli si bloccò in gola. Avvertì un lungo brivido freddo percorrergli la spina dorsale e il suo cuore iniziare a battere veloce, come mai aveva fatto; solo dopo che una folata di vento gli schiaffeggiò il viso si rese conto di aver spalancato gli occhi e aver socchiuso la bocca e che Elijah gli chiedeva se stesse bene. L'umano sembrava confuso tanto quanto lui.
Annuì, ma non era Kohen che aveva incatenato il suo sguardo, questa volta. Accanto a lui, la piccola ragazza dai capelli rossi lo stava sfidando con quegli occhi tanto blu da sembrare ritoccati dalla magia. Non avrebbe abbassato lo sguardo.
Deglutì a fatica e se ne andò velocemente, verso la sua tenda, dove per minuti interi cercò di calmare il proprio cuore, gli occhi luminosi di Ava Keegan su di lui come quelli di un essere proveniente da un altro mondo.

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