Erano arrivati a Leida nel primo pomeriggio, ed erano stati travolti dai festeggiamenti.
Ormai il calore estivo stava andando estinguendosi e iniziava a sentirsi il fresco vento autunnale, presto sarebbero tornate le divise pesanti, le coperte di lana, le minestre bollenti.
Era passato più di un mese da quando il gruppo di Elijah e Ava era sotto la direzione di Athelstan. Sotto il suo comando avevano liberato molte città nel nord, dove gli uomini del Di Sotto avevano fatto razzie e avevano cercato di stabilire un loro controllo, poi la sua divisione aveva ricevuto ordine di recarsi a Leida, città sull'Oceano dell'Est per far curare i feriti e riposare gli uomini.
Erano arrivati giusto in tempo per il Mabon, la festa in ringraziamento al dio dei raccolti, per pregare a una buona annata.
I cittadini li avevano accolti con calore, ma qualcosa nei loro occhi lasciava a intendere che anche loro avevano sentito la pressione della guerra. I festoni e le luci appese da un balcone all'altro erano vecchie, il cibo era scarso. Si scusarono per non riuscire a offrirgli molto.
Ava e Cameron avevano aiutato a sistemare i feriti in ospedale, mentre Elijah, che era stato sfiorato al polpaccio da una pallottola vagante, era alle prese con un' infermiera fin troppo premurosa e dagli occhi dolci.
I due fratelli stavano proprio sistemando su un lettino uno dei loro compagni—un ragazzo molto giovane, Ezra, che si era rotto un braccio—quando notarono che l'infermiera aveva messo una mano sul petto di Elijah e gli si era avvicinata pericolosamente. Si erano entrambi fermati per osservare.
"Dovremmo fare qualcosa?"
"A parte ridercela, intendi?" Ava era sul punto di scoppiare a ridere, ma si trattenne e osservò divertita gli occhi di Elijah farsi grandi dal panico. Non l'aveva mai visto così in difficoltà.
Quella sera, quando Elijah riuscì a sfuggire dalle premure dell'infermiera per mangiare con loro, sembrava molto stressato.
"Vi ho visti voi due," esordì puntando il dito contro Ava e Cameron.
"Non siamo riusciti a interrompervi," rise la ragazza afferrando al volo il significato di quelle parole.
Elijah con un sospiro stanco le si sedette accanto.
Gli abitanti del villaggio avevano preparato loro della passata di zucca e carote. Niente pane.
Mangiarono senza parlare molto, qualche commento ogni tanto, qualcuno chiedeva a Elijah come stessero gli altri feriti, altri gli chiedevano se sapesse per quanto sarebbero rimasti lì. Lui rispondeva che avrebbe chiesto ad Athelstan.
Ava, al sentire pronunciare il suo nome si voltò per cercarlo. Molti elfi si trovavano nella locanda, ma tra loro non intravedeva il Comandante.
Nell'ultimo mese, Athelstan li aveva avvicinati, lei ed Elijah, piano, come un pescatore che lentamente tira la lenza quando sente la lieve pressione di un pesce che ha abboccato.
Era stato subdolo al principio. La mattina, quando Elijah e Ava si allenavano, passava di lì, dando l'aria di trovarsi in quel posto per caso. Li osservava e gli dava qualche consiglio. Tieni la pistola più in alto, tira in dietro le spalle e non chiudere gli occhi. Si era trattato di stupidaggini, ma ogni volta che riprendeva a camminare e dava loro le spalle, Elijah rimaneva a guardarlo fino a vederlo scomparire, senza riuscire a contenere la sorpresa e dopo aleggiava su entrambi uno strano senso di inquietudine. Athelstan aveva continuato così per qualche giorno, poi aveva iniziato a fermarsi più a lungo, mostrargli delle tecniche, dei movimenti particolari. Dopo ancora qualche giorno, era rimasto per più di un'ora insieme a loro e li aveva aiutati nella lotta corpo a corpo. "La vostra mira è già buona. Ottima per degli umani. Dovreste migliorare la difesa e l'attacco ravvicinato." È questo che aveva detto loro.
Si era comportato come un ammaestratore che si avvicina alla tigre appena arrivata dalla giungla, piano, con la mano tesa, ma non troppo, giorno dopo giorno un passo in più fino a che la bestia feroce non si lascia accarezzare.
Persino durante i loro spostamenti di città in città al Nord del continente, Athelstan continuava a dar loro lezioni. Durante le pause, la mattina presto o la sera tardi. Rimaneva distaccato quando c'erano altri intorno, ma spesso quando si trovavano da soli, si toglieva la giacca da Comandante e li faceva esercitare lui stesso.
Elijah si era chiesto più volte il perché e aveva cercato di spiegarselo osservandolo, ma mai chiedendo. Durante gli allenamenti, anzi, cercava di estorcergli e informazioni sugli spostamenti della divisione e sull'andamento generale della guerra, ma il comandante si guardava bene da spifferare cose che la grande mente di Elijah Kohen non avrebbe dovuto ottenere.
Raccontava loro invece delle sue imprese, delle avventure che aveva vissuto da ragazzo, al fianco del re, degli allenamenti duri che aveva dovuto sostenere, dei pericoli che aveva corso.
Elijah non sembrava particolarmente interessato, o almeno così voleva lasciar credere, mentre Ava faceva di continuo domande, senza mai stancarsi. Una volta, l'aveva visto sorridere.
Per questo, quando non lo vide nella locanda, per un attimo si preoccupò.
"Sai dov'è?" Diede una gomitata ad Elijah. Lui la guardò di sottecchi, il cucchiaio in bocca.
"Chi?" Ava sapeva che fingeva di non capire.
"Athelstan."
"Non saprei."
"Non ti ha detto niente?"
"Solo che avrebbe contattato il re oggi, magari è in attesa della chiamata."
"Quando avete parlato?"
"È venuto da me in infermeria."
"Ti ha chiesto un consiglio?"
Sbuffò. "Ovviamente non è arrivato esordendo con: «Ho bisogno di un consiglio,» ma sì, più o meno."
"Ovvero? Smettila di girarci intorno!"
Elijah strinse le labbra e guardò in alto, dove la luce gialla e soffusa appesa al soffitto attirava diverse farfalline.
"Mi ha chiesto se ce l'avremmo fatta a reggere un lungo periodo di trincea."
Ava trattenne il fiato. Avevano passato solo qualche giorno in trincea, in aiuto a un'altra divisione, ma era stato un inferno e molti uomini erano morti, presi alla sprovvista da quella nuova realtà di combattimento.
"E tu?"
"Ho detto che ce l'avremmo fatta, ma che ci sarebbero state molte perdite."
Ava prese due cucchiaiate. "Quindi dove ci vogliono mandare?"
"Temo sempre più a sud, verso Lo Squarcio." Lo Squarcio, quel gigantesco buco nel terreno da dove uscivano come insetti gli uomini del Di Sotto.
"Pensi che al comandante farebbe piacere una tazza di tè?"
"Vuoi andare a origliare?"
"Sono curiosa."
Elijah strinse di nuovo le labbra. "Vai, ma sta attenta, in questo periodo si irrita facilmente." Ormai ne parlava come se fossero amici di vecchia data.
Ava era piuttosto sorpresa della svolta che aveva preso il loro rapporto con Athelstan. Rimaneva un loro superiore, ma sembrava tenerli entrambi in grande considerazione. Nonostante fosse un elfo, aveva riconosciuto il genio di Elijah e spesso gli faceva domande sull'andamento degli altri uomini, come se glieli avesse affidati e si stesse rivolgendo a un capitano.
Ogni tanto le capitava di imbattersi in loro mentre parlottavano con una tazza di tè o caffè in mano, chini sul fuoco, o davanti a una mappa.
Finita la sua cena, si fece dare dalla locandiera una tazza di tè e si fece dire la stanza del comandante, poi, senza farsi vedere dagli altri elfi, salì in fretta le scale.
La camera era una delle ultime e l'unica dalla quale proveniva un certo vociare.
Ava, con il misero vassoio e la tazza in mano, si mise in ascolto.
"La situazione lì è troppo precaria," stava dicendo Athelstan, "non sappiamo con quali armi o strategie hanno battuto il secondo comandante— sì, Roland, capisco." Chiamava il re per nome, pensò Ava, allora doveva davvero aver passato certe situazioni insieme. "Sono lusingato da tutti questi complimenti, ma i miei uomini si sono ridotti di un quarto rispetto a quando abbiamo iniziato la liberazione al nord. Sono stanchi e hanno bisogno di un periodo di riposo. So che loro non sembrano aver bisogno di riposo, ma se cerchiamo di adattarci ai loro tempi faremo il loro gioco, Roland. Dobbiamo imporre le nostre regole, come abbiamo sempre fatto."
Ci fu un momento di silenzio.
"Va bene, farò come vuoi, ma tu non fare cose avventate. Aspettami."
Ava sentì la cornetta venir riposta con delicatezza sul ricevitore.
Quindi Athelstan aveva acconsentito a portarli in trincea in una situazione disperata. Cercò di mandar giù il groppo alla gola, ma le venne piuttosto difficile.
"Entra, Keegan."
Per poco il vassoio con tutta la tazza non le cadde di mano.
Bussò piano, anche se ormai era inutile, poi abbassò il pomolo e aprì.
"Scusi, stavo proprio per—"
"Mhm..." ma Athelstan sembrava non sentirla nemmeno. Seduto su una semplice scrivania, in una semplice stanza con delle semplici pareti bianche e un piccolo letto accostato alla parete, la figura eterea dell'elfo era fuori posto, inappropriata, troppo luminosa e perfetta.
"Le ho portato il tè."
"Ne avrei bisogno." Le indicò il tavolo e Ava si apprestò ad appoggiare il vassoio.
Non accennò ad andarsene. "Non ho potuto non sentire..."
"Ho notato. Non sei ancora capace di celare del tutto la tua presenza."
"Non avevo intenzione di nascondermi."
"Può darsi." Il comandante si sporse verso la tazza di tè fumante. "È ancora troppo caldo. Ti va di farmi compagnia mentre si raffredda?"
Ava non sperava in meglio. "Sarebbe un onore."
Athelstan le indicò una sedia, appoggiata al muro, forse con l'iniziale intenzione di sgabello. Ava la prese e vi ci sedette.
"Come la prenderanno gli uomini alla notizia?" Le chiese dopo un attimo di silenzio. I suoi occhi erano sul muro, come se non avesse il coraggio di guardarla negli occhi.
"Si spaventeranno, ma la seguiranno."
"Ma?"
"Ma dopo un po' inizieranno a titubare, soprattutto se passeremo molto tempo in trincea. Moriamo più facilmente di voi e hanno paura di questo."
"Tu non hai paura?"
Ava rimase spiazzata. Elijah non l'aveva istruita per rispondere a una cosa del genere, non sapeva che consigli dare ad Athelstan, come parlargli per muoverlo nella direzione che volevano. Per la prima volta si rese conto di dover pensare con la sua testa.
"Tutti hanno paura di morire, comandante," rispose. "Non sono da meno."
"Ma?"
Sorrise amaramente. "Questa volta non c'è nessun ma."
"Strano." Il Comandante non aggiunse altro, lasciandola interdetta.
"E lei ha paura di morire?" La domanda era azzardata, impudente, ma se ne accorse solo dopo averla pronunciata.
Athelstan non si arrabbiò. Mandò giù la saliva, tranquillo, ponderando la risposta adatta.
"La verità, Keegan," disse, "è che chi dice di non aver paura della morte, in realtà mente. Ciò che potrebbe succedere, invece, è desiderarla."
"Desiderare la morte? Non è un controsenso?"
"Certo che no. Aver paura della morte significa aver aver paura di ciò che viene dopo. Se ti sparano in testa, non lo senti nemmeno. Muori. Hai paura del dopo. Se invece hai paura di uno sparo che ti causerà la morte, vuol dire che hai paura del dolore, non del passare dall'altra parte. Abbiamo paura dell'ignoto che sta oltre quel passo." Deglutì. "Invece, chi desidera la morte, desidera non stare più in questo mondo. Non gli importa cosa c'è dopo; che ci sia il nulla o una nuova vita, vuole semplicemente porre fine a quella che sta vivendo." Sospirò. "Chi desidera la morte è il più pericoloso di tutti."
"Deve averci riflettuto molto."
"Dopo tanti anni e tante morti, desiderate o meno, è per forza così."
"Non volevo portarla a ricordare certe cose."
Allungò le dita sulla tazza, un sorriso amaro si sciolse sul suo viso. "Non fanno più così male." Sollevò la tazza e la portò alle labbra. "Ora è tiepido. Vai a divertirti con gli altri."
Dalla finestra infatti si sentivano le urla scomposte dei suoi compagni nel tentativo di riesumare un canto allegro e una chitarra che veniva strapazzata senza tanto senso.
"Dovrebbe scendere anche lei, Comandante."
"Raffredderei la festa. Vai a divertirti."
"È stato un piacere. Buonanotte, Comandante."
Athelstan non rispose, o forse lo fece, ma troppo piano perché Ava, da oltre la porta, potesse sentirlo.
Scese le scale, la scena che le si presentò la fece sorridere immediatamente. In piedi sul tavolo Cameron aveva la chitarra in mano e faceva vibrare per la locanda i pochi accordi che aveva imparato durante la guerra. Gli aveva fatto da insegnante uno dei soldati veterani, morto da pochi mesi e che gli aveva lasciato la chitarra, ma aveva ancora bisogno di esercitarsi. E soprattutto di farlo da sobrio. Le sue guance erano rosse e il collo sudato, i capelli biondi erano scombinati e sparati dappertutto, rideva come un matto e le dita scivolavano sulla tastiera della chitarra, certe volte non azzeccando l'accordo esatto. D'altro canto, le voci che accompagnavano il suono non erano delle migliori.
Eppure, si accorse un po' dopo Ava, elfi e umani erano a braccetto, stretti l'uno all'altro, uniti dall'offuscamento dell'alcol.
Ava sorvolò la scena fino a trovare chi stava cercando: Elijah era seduto a un tavolo poco lontano, una bottiglia di birra in mano, e muoveva la testa su e giù a ritmo.
Prima di andare da lui passò dalla locandiera, anche lei divertita dal clima che si era creato nella sua locanda, per chiederle una cosa, poi si sedette al suo fianco.
"Cosa dice il Comandante?" Le chiese senza distogliere lo sguardo da Cameron.
"Parlava con il re. Ci mandano in trincea."
Elijah prese un lungo respiro. "Immaginavo."
"È un male?"
"Lo sapremo solo quando saremo lì."
Ava era certa che se ELijah avesse avuto le informazioni che Athelstan si tenda per sé, avrebbe concluso la guerra in un paio di settimane. Chi l'avrebbe mai detto. Lo aveva conosciuto come un ricco ragazzo ribelle che si dilettava nel teatro e ora lo vedeva come un possibile comandante. Un tempo non le sarebbe stato possibile nemmeno immaginarlo.
"La locandiera mi ha detto che c'è un pianoforte."
Le dita di Elijah, che si muovevano a ritmo della musica di Cameron si fermarono. Non disse nulla, come se quella frase non gli paresse vera.
"Se ti va..." continuò cauta Ava, "mi piacerebbe ascoltarti suonare."
"Dici che..." la sua voce scemò e Ava per un attimo rivide quel ragazzo spensierato che aveva conosciuto un tempo.
"Farebbe piacere a tutti." Gli prese il braccio, strinse la giacca e sotto la ruvidezza del tessuto sentì i muscoli tesi e forti. Un tempo lo prendeva in giro per la sua figura mingherlina e ora eccolo al suo fianco, le spalle larghe e forti, le gambe muscolose e pronte a scattare, le mani piene di calli a forza di tenere in mano la pistola. "Per favore."
"E va bene."
Ava si esibì in un grande sorriso. "Andiamo allora." Gli prese la mano e lo alzò.
"E gli altri?"
"Ci seguiranno."
Di fatto, appena vacarono la soglia della locanda, Ava sentì Cameron urlare: "Ehi, dove state andando voi due?" Presto li avrebbero raggiunti.
Gli ultimi abitanti del paesino, i ritardatari o quelli che on erano riusciti a staccare dal lavoro prima di allora, si affrettavano verso la piazza e indicavano loro la via, erano vestiti tutti in bianco e rosso, gli uomini portavano quasi tutti un grande orecchino all'orecchio destro, mentre le donne portavano un collare che fasciava il collo per intero. Sembravano tutti cimeli di famiglia, risalenti a decenni e decenni prima.
Le ragazze adocchiavano Elijah come si nota un piatto esotico in una tavola imbandita: il bel soldato che viene da luoghi lontani e che ha combattuto per il popolo. Sarebbe allettante per chiunque.
Ma Elijah teneva stretta la mano di Ava e non vedeva nient'altro.
Iniziarono a sentire la musica proveniente dalla piazza e le canzoni cantate a squarciagola e i tacchi di chi scandiva il tempo con il ballo quando ancora non scorgevano il palco dell''orchestra e le luci bianche e rosse appese tutt'attorno, sui palazzi e balconi.
Poi sboccarono una una piazza traboccante di gioia e movimento. Chi arrivava si lanciava subito nei balli e lì, tra i passi e i battiti di mani salutava i vicini e gli amici e i compagni di classe.
"Non vedevo una festa così grande da..."
"Mai vista una festa così grande," disse Ava.
"A Rasenstracht non abbiamo una cosa del genere, vero?"
Ava scosse la testa, troppo impressionata da ciò che aveva davanti per rispondere.
"Eccovi!"
Cameron piombò su di loro dalle spalle, seguito subito dagli altri ragazzi e persino da qualche elfo, troppo ubriaco per rendersi conto di essere finito in mezzo a degli uomini che durante il giorno evitava. Si aggrappò a Elijah e Ava tanto da rischiare di tirarli giù con lui. "La strada è scivolosa," si giustificò, biascicante. Poi riuscì ad alzare lo sguardo e guardarsi intorno. Un "Wow," sussurrato uscì dalle sue labbra umide. "È tutto rosso e bianco..." Elijah non potè che scoppiare a ridere, mentre Ava rimproverava il fratello con lo sguardo. "Avi..." l'espressione severa scomparve dal voto della ragazza. Era da molto tempo che non la chiamava così. Persino da prima della guerra aveva smesso di apostrofarla con quel nomignolo dolce da fratello maggiore. "Andiamo a ballare—"
Non le lasciò il tempo di comprendere quelle parole che le aveva afferrato il braccio e si era buttato nella mischia. Ava non riuscì a fermarlo in nessun modo: era deciso a farla ballare e ci avrebbe messo tutta la sua forza. Elijah ovviamente rimase a guardare ridendo mentre i due fratelli marciavano tra le coppie ordinatamente disposte sulla pista che eseguivano i loro passi precisi e allegri.
La reazione del paese fu inaspettata: non appena videro Ava e Cameron—o meglio Cameron che faceva girare e girare Ava senza lasciarle scampo— si misero a imitarli. I due fratelli iniziarono a prenderci gusto e a fare i movimenti più strampalati e difficili. La piazza intera sembrava scossa da una grande risata generale.
Poi la musica finì. Ma per poco.
Già dai primi accordi, suonati per testare il pianoforte e le dita arrugginite, Ava riconobbe Elijah. Dal centro della piazza e il centro dell'orchestra i loro occhi si incrociarono, si sorrisero e poi Elijah sventolò un tamburello con sonagli al quale erano legati dei nastri bianchi e rossi.
Tra i due iniziò una conversazione silenziosa, fatta di sguardi e intesa.
Ava lo guardò come a dire: "Sul serio?"
"Io sono qui sopra, tu sarai lì al centro."
"Tu sei pazzo."
Elijah scoprì in parte i denti in un sorrisetto furbo, poi, senza preavviso, lanciò il tamburello a sonagli, proprio verso di lei.
Le persone si abbassarono, con degli "Oh!" sorpresi, ma Ava lo osservò arrivare e con un salto lo prese con mani salde.
Il tamburello significava una sola cosa: il balletto del suo debutto e quei due minuti che l'avevano vista da sola, al centro del palco, illuminata da mille luci e osservata da mille occhi, il cuore in gola e gli occhi lucidi dall'emozione. Lei ed Elijah avevano ascoltato milioni di volte quel brano sul grammofono in casa di lui e lei gli aveva fatto anche una piccola interpretazione, che però, gli disse, non sarebbe mai stata paragonabile vista a Teatro.
I cittadini di quella piccola città la osservavano con occhi grandi, ma si allontanarono senza che nessuno dicesse nulla. Cameron compreso, che si sedette ai margini della pista per osservare in prima fila la sorellina reinterpretare il suo debutto.
Ava guardò la punta dei suoi scarponi, graffiati dai mesi di guerra, sporchi di terra e fango, i pantaloni larghi, verde militare, guardò le sue mani, graffiate e con qualche cicatrice qua e là, guardò quel tamburello a sonagli così lontano da come era ora. Prese un lungo respiro e tirò indietro le spalle. Le sembrava di sentire Madame, dietro di sé, sibilare istruzioni: gambe dritte, braccia tese ma morbide, sguardo in alto, sorridi. Chiuse gli occhi e rivide il grande sipario sollevarsi davanti ai suoi occhi, la calda luce dei riflettori su di sé, la platea piena.
Elijah ed Ava si scambiarono un ultimo sguardo, poi Elijah iniziò: un breve vibrato sui tasti gravi del pianoforte catturò l'attenzione dell'intera piazza e poi si mossero insieme, il pianista e la ballerina. Il motivo era secco e allegro, scorrevole, accompagnato dai movimenti decisi di Ava con il tamburello, la gamba che saliva in alto fino a che la punta degli scarponi non raggiungeva la superficie dello strumento, tenuto in alto dalle braccia che avevano ripreso, come spiritate, l'eleganza di un tempo. Tutto il suo corpo si muoveva non più come il soldato Keegan, ma come la Prima Ballerina di Rasenstracht. Le sue gambe si tendevano e allungavano e accompagnavano i salti delle dita di Elijah sul pianoforte, il corpo era un tutt'uno con il tamburello e con la musica. Il sorriso non era quello forzato che indossava durante le solite esibizioni, ma quello vero ed emozionato e intenso di una gioia profonda. Avrebbe tanto voluto scoppiare a ridere.
Durò troppo poco.
Ava si ritrovò troppo presto in quella tanto nota posizione finale, in ginocchio, una gamba tesa di fianco a sé, un braccio davanti e quello che teneva il tamburello piegato elegantemente sulla sua testa. Sorrideva a quelle persone che la applaudivano e ridevano e saltavano dalla gioia per uno spettacolo così inaspettato. Anche Ava era felice.
Gli applausi andarono avanti per un minuto intero, mentre Ava si era alzata e inchinata e accorta che le faceva male tutto, sia perché non si era riscaldata affatto, sia perché non si esercitava da mesi.
Il direttore d'orchestra richiamò l'attenzione su di sé tossendo su un microfono. Fece i complimenti ad Ava e poi ad Elijah e poi sorridendo disse: "Avete appena osservato la Prima Ballerina di Rasenstracht!" Altri applausi, fischi, risate. I ragazzi di Elijah erano in prima fila ed erano i più chiassosi e tra loro c'era Cameron che sembrava rinvenuto dall'intontimento. Ava rideva, rossa in viso, poi esortò perché ricominciassero le danze.
"Balliamo un po' alla maniera dei nostri amici!" Il direttore d'orchestra, un ometto spelacchiato e impanate diede il via a Elijah. In men che non si dica l'orchestra lo seguiva in una musica blues che Ava gli aveva sentito tirar fuori solo dopo svariati calici di vino. Lo osservò ridendo mentre veniva circondata da persone in rosso e bianco che si muovevano senza alcun senso, cercando di imitare quei soldati ubriachi che erano diventati protagonisti al centro della pista. Seguiva il ritmo con la testa, mentre le dita si muovevano veloci sui tasti in un'improvvisazione straordinaria. Sorrideva, inconsciamente, proprio come lei aveva fatto fino a poco prima, i suoi occhi scintillavano, fissi sui tasti. Gli altri musicisti lo seguivano con una pari abilità, riuscendo ben presto a sincronizzarsi al suo stile e al suo ritmo particolare. Sembrava si stessero divertendo lassù.
Ava venne afferrata per un braccio e ritrascinata nella mischia. "Su, Avi!" Cameron le prese entrambe le mani, la fece girare e poi tentarono di mettere in piedi un ballo blues fatto bene, ma senza successo: Cameron sembrava non avere alcun senso del ritmo. Ava non rideva tanto da mesi.
Stringeva le mani del fratello come non aveva mai fatto, forse sapendo che non sarebbe più ricapitato in altri tre mesi, forse sei o forse un anno. Forse mai più. Sapendo di poter perdere qualcosa diventa improvvisamente più prezioso. Perciò Ava decise di godersi appieno ogni singolo istante e imprimere nella sua memoria le guance rosse e i capelli spettinati del fratello e il sorriso condiviso con Elijah. Sapendo che tra una settimana non avrebbero più sorriso.

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Dalle Ceneri
FantasiAva Keegan era la ballerina più promettente del Di Sopra. Elijah Kohen era un aristocratico che si dilettava come attore nel tempo libero. I loro futuri erano rosei, le prospettive serene. Dal loro incontro casuale nacque un'amicizia spontanea e nel...