𝘓𝘢 𝘱𝘶𝘳𝘦𝘻𝘻𝘢 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘮𝘰𝘳𝘵𝘦

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Un attimo di attenzione prima di cominciare!
Vi informo già da subito che questo capitolo non modifica in alcun modo la storia principale (in quanto si svolge nel passato), e per questo la lettura è facoltativa.
Contiene però dei chiarimenti su alcune cose che non spoilero!
Detto questo buona lettura!

Chi ero? Domandai a me stessa.

"Quando sei nata non hai fatto altro che piangere, nessuno di noi sapeva cosa fare per calmarti"
Questo era ciò che mi raccontava mia madre.
Mi guardava sempre con un sorriso, e potevo giurare che altrettanto aveva fatto alla mia nascita.
Anche mio padre mi amava, mi portava sempre in braccio e aveva sempre qualche piccolo regalo per me.
Così come anche per mia sorella maggiore.
Se pur ero piccola, avevo già capito che mia sorella non provava davvero nulla nei confronti della nostra famiglia.
Se nostro padre fosse morto avrebbe pensato: "E adesso chi porterà i soldi a casa?", invece di rattristirsi per la perdita di un caro.
"E ora chi preparerà i pasti?" Se invece fosse stata mia madre.
"Chi farà la spesa? Chi penserà a tutti i documenti? Chi sistemerà la casa?" Se fossero stati entrambi.
E di me? Probabilmente non pensava nulla di me.
Per lei non meritavo né amore, né odio.
Non ho mai ricevuto alcun tipo di attenzione da lei nel corso della mia vita, se non quando ebbe il grande desiderio di vedermi in rovina.
Lei faceva ciò che gli altri volevano che facesse: se mia madre avesse voluto che l'aiutasse a cucinare, allora l'avrebbe fatto; se mio padre avesse voluto che pulisse il pavimento, allora avrebbe fatto anche quello.
"Nemmeno per sogno, non infastidirmi" questo era ciò che diceva se invece fossi stata io a chiederle qualcosa.
Hiroko, il suo nome significava 'Figlia generosa'.
Effettivamente il suo dovere lo stava facendo, ma dato che io ero sua sorella non aveva alcun obbligo di essere gentile anche con me.
E io non dicevo mai nulla ai nostri genitori, perché in fondo non era granché.
Era lei la più grande tra le due, dunque ero io quella che doveva portare rispetto nei suoi confronti.
Poi qualcosa cambiò, e iniziai a non fare nemmeno più caso a lei.
Nacque mio fratello minore, Kosuke.
Lui riempì le mie giornate, poiché adoravo stare vicino alla sua culla e giocare con lui.
Mi guardava e sorrideva, e se me ne andavo iniziava a piangere.
'Sole che sorge', il suo nome lo descriveva alla perfezione.
Fu 'una nuova giornata' soprattutto per me, dato che passavo tutto il mio tempo con lui.
Quando iniziò a gattonare io gli ero vicina, ed esultai per la felicità.
Lo prendevo in braccio e lui rideva felice, mentre nostra madre ci guardava e sorrideva.
'Sorella' fu la sua prima parola, e 'mamma' la seconda.
Per la prima volta ero ufficialmente al primo posto per qualcuno.
Molto spesso portavo i miei compiti vicino alla sua culla, e li facevo insieme alla sua presenza.
A scuola mi vantavo con i miei amici di lui: "Probabilmente mi vuole più bene di quanto ne voglia a nostra madre" "Sono sicura che sarò la sua migliore amica quando crescerà".
Loro annuivano e mi incoraggiavano, anche se a volte con tono dubbioso.
Mi ci volle del tempo per capire che avevano preso di malocchio la mia grande affezione a mio fratello.
"Pensi che ciò che dica sia vero?" Chiedevano.
"Davvero? Credi alle parole di Kiyo?" E se la ridevano.
È impossibile, affermavano poi.
Mi resi conto ancora più tardi di come quelli che chiamavo 'amici' non sarebbero mai venuti da me se prima non fossi venuta io da loro.
E così iniziai a preferire la compagnia di mio fratello alla loro.
Iniziai a smettere di passare i pomeriggi insieme al mio 'gruppo', ormai adoravo di più rimanere a casa e giocare insieme a Kosuke.
"Mi dispiace per lei, probabilmente si sentirà così sola se preferisce un poppante a noi" disse dopo poco tempo la ragazza che avevo reputato 'più gentile di tutti'.
E poi la risata di tutti mi fece quasi scordare di esistere.
Non lo dicevano di fronte a me, no, ovviamente non lo facevamo.
Eppure riuscivo a sentirli, poche volte rispetto a quante fossero davvero state.
Alcune volte ero dietro ad un muro, altre volte eravamo nella stessa aula e il mio orecchio riusciva a percepire le loro parole, altre ancora erano loro stessi che parlavano troppo forte.
All'inizio mi ferii, poi con il tempo mi ci abituai.
Ingenua, mi aveva chiamato mia sorella.
Nessuno sarà mai dalla tua parte, ficcatelo bene in testa.
Non le credevo.
Tornavo da Kosuke e il solo guardare il suo viso splendente mi faceva tornare la tranquillità.
Mia madre invece mi rassicurava dicendo che erano solo invidiosi del mio rapporto con mio fratello.
Mi sorrideva, e diceva che andava tutto bene.
Lui crebbe, iniziò a parlare e a camminare.
Nel tempo il nostro rapporto non si era modificato, eravamo inseparabili.
Adesso anche lui aveva iniziato a venire da me, e se ne andava solo se era accompagnato da me, oppure se era nostra madre a dirlo.
La mattina mi preparavo per andare a scuola, e aspettavo dentro di me il momento in cui lui avrebbe frequentato il mio stesso istituto, così da poterlo mostrare a tutti.
"Lui è il mio caro fratello" avrei detto, e avrei sorriso di fronte ai loro volti stupiti.
E quel momento arrivò, solo che ormai coloro a cui volevo mostrare ciò di cui andavo più fiera si erano già scordati di me.
Perciò mi limitai a passare il mio tempo in sua compagnia prima che il suono della campana segnasse l'inizio delle lezioni.
Poi ci incontravamo nuovamente durante l'orario di pranzo, ed infine tornavamo a casa insieme.
Gli chiedevo sempre come era andata la sua giornata, e lui me la raccontava nei minimi dettagli.
Mi presentò anche ai suoi amici, che avrebbero poi sfoggiato la mia conoscenza come un trofeo.
Loro erano di primo anno, io di ultimo, e tra poco avrei dovuto cambiare scuola.
"Mi mancherai" mi diceva sempre, quando alludevo alla mia futura scuola.
"Anche tu" rispondevo sempre.
Affermava che di sicuro mi sarei fatta molti amici, perché a suo avviso ero sorprendente.
E io ci speravo, anche se ho sempre saputo che mi bastava lui per essere felice.
Tornati a casa giocavamo, studiavamo, mangiavamo, facevamo tutto insieme.
E smettevo di pensare a tutto il resto, a nostra madre, nostro padre, anche nostra sorella.
Hiroko non parlava quasi mai con nostro fratello, 'meglio così' pensavo sempre.
Se lo facesse, lo riempierebbe solo di cupa tristezza.
E così andammo avanti per anni, ero rinchiusa nella mia perfetta e amata monotonia.
Lo ero.
Poi mia sorella decise di ridurre in frantumi la mia tranquillità.
Ricordo che ero seduta difronte a quel piccolo lago insieme a Kosuke, "Vado a prendere qualcosa da mangiare, torno subito" gli avevo detto, e così mi alzai e mi incamminai verso la casa.
Si trovava li vicino, dietro a qualche albero.
Posai le scarpe all'ingresso e percorsi il lungo corridoio fino ad arrivare davanti alla porta della cucina.
In quel momento udii qualcosa che, ripensandoci, avrei preferito non sentire.
I miei genitori stavano litigando con mia sorella: apparentemente aveva preso dei soldi di nascosto, e li aveva spesi tutti in gioco d'azzardo.
'Si è beccata ciò che merita' pensai sul momento.
Ritornai da Kosuke con degli spicchi di mele posti su un piatto.
Era sempre stato un grande amante di questo frutto, e infatti i suoi occhi si illuminarono.
Non pensai più a quella discussione che avevo accidentalmente origliato, mi godetti il tempo con mio fratello, e rientrammo a casa solo quando nostra madre ci chiamò per andare a cenare.
I giorni passarono e quelle discussioni iniziarono a ripresentarsi, una più devastante della precedente.
Una volta perse metà dei soldi, un'altra solo una piccola parte, un'altra ancora li perse tutti.
Hiroko un giorno venne da nostro padre, chiedendoli un prestito.
Aveva vent'anni al tempo, e io ne avevo sedici.
Affermò che doveva ripagare un debito, e che se non lo avesse fatto ora sarebbe stato un disastro dopo.
Mio padre aveva il volto in fiamme, mia madre cercava di calmarlo dato che anche io e Kosuke eravamo presenti nella stanza.
"Calmati tesoro" "Rifletti a mente lucida" "Rimane comunque tua figlia" le parole uscivano dalla sua bocca in cerca di placare le emozioni negative di suo marito.
Eppure vedevo che anche lei era agitata, ma ciò che non capivo era perché stesse ancora tentando di giustificare mia sorella.
Presi per mano Kosuke e gli dissi che volevo giocare di fuori.
Mi chiedo se avesse mai capito la vera gravità di tutto ciò che stava accadendo.
Passammo tutto il resto della giornata a giocare, e quelle poche volte in cui io ero rientrata a casa non avevo potuto fare a meno di notare il continuo malumore di mio padre.
Si calmò il giorno dopo, tornando il solito uomo che avevo conosciuto sin dalla mia nascita.
Poi passò un mese, poi due, tre, quattro.
I debiti di Hiroko erano ormai quotidianità.
Alcune volte, mentre cercavo di raggiungere la mia camera dopo aver dato la buonanotte a mio fratello, riuscivo a sentire la disperazione di mia madre.
Percepivo i suoi singhiozzi, le lacrime che cadevano a terra.
"Perché fa così? Cosa ho sbagliato?" Pensava probabilmente.
Lo avevo notato da un po' di tempo ormai: le spese erano diminuite, e al contrario l'assenza di mia sorella era aumentata.
Entravo nella stanza di mia madre, e lei si ammutoliva quando mi vedeva.
L'abbracciavo senza dire altro.
"Sta tranquilla, risolveremo tutto"
"Non preoccuparti, smetterà"
Parole che rivolgeva a me, ma che invece pronunciava per convincere se stessa.
"Lo so, mamma. Mi fido di te" rispondevo, per tranquillizzarla.
Poi quando si calmava mi chiedeva scusa, e diceva che avrei dovuto andare a dormire.
E così io facevo, sorridendole e andandomene a passo lento.
Non smise mai.
Hiroko continuò, e continuò ancora, e ancora.
Un giorno nostro padre convocò sia me che mio fratello, e ci disse che avremmo dovuto abbandonare la scuola.
Fu uno shock per me, non perché dovevo lasciare quel luogo oppure gli 'amici' che avevo, bensì perché capii fin dove mia sorella si era spinta.
Mio fratello annuì senza dire altro, e così feci anche io dopo.
Lasciammo quella stanza, e io -per la prima volta- desiderai di rimanere da sola.
Mi chiusi nella mia camera e piansi.
Non saprei dire il perché di quell'azione, ma nessuno mi disturbò oltre.
Né mio padre, né mia madre, né tantomeno mio fratello.
I giorni seguenti non dovetti preoccuparmi di svegliarmi presto, avevo iniziato a fare tutto con più calma come facevo solitamente il fine settimana.
Il rapporto che avevo con i miei genitori tornò quello di sempre, mentre incominciai a vedere mia sorella più raramente del solito.
Non che fosse un problema, non avevo mai avuto un qualche tipo di legame con lei.
Hiroko usciva di casa la mattina presto, alcune volte non tornava per un paio di giorni, e poi si ripresentava la sera dei giorni seguenti.
Era un continuo circolo ostinato quello, e anche i miei genitori ormai avevano perso le speranze con lei.
Facevano tutto ciò che fosse in loro potere pur di risolvere i suoi problemi, ma non tentavano più di convincerla a smettere.
Kosuke sembrava spensierato come non mai, 'giochiamo a palla' chiedeva alcune volte; 'dipingiamo un quadro insieme' diceva altre.
E io lo assecondavo, poiché non sapevo neppure come pronunciare la parola "no" a lui.
Mi feci trasportare nella sua stessa felicità, anche se la consapevolezza era diventata ormai la mia migliore amica.
Fu ad agosto, poche settimane dopo il mio diciassettesimo compleanno, che tutto cambiò.
Era tardi quel giorno, e mia sorella, dopo tanto tempo, tornò con il braccio completamente fasciato.
Mia madre quasi svenne nel vederla, smise di cucinare la cena e si precipitò subito su di lei, preoccupata per cosa fosse successo.
Un proiettile disse seccamente.
Non lo nascose nemmeno.
Se fosse una circostanza normale avrei pensato ad un assalto, una rapina, o un qualcosa del genere.
Ma lei non era una circostanza normale. Non lo era mai stata.
Lo capì persino mia madre, che cadde sulle ginocchia e si aggrappò alle gambe di Hiroko.
"Non farmi questo, figlia mia. Ti scongiuro" pregava tra i singhiozzi.
E le sue lacrime cadevano velocemente, e il kimono iniziava a scompigliarsi.
Hiroko non la degnò nemmeno di uno sguardo, andò non so in quale camera, mentre mia madre si coprì il volto con le mani.
Mi avvicinai a lei, le misi una mano sulla spalla.
"Mamma..." dissi con voce bassa.
Lei si buttò su di me, mi strinse come se fossi la linfa vitale che da tempo ormai iniziava a scappare dal suo corpo.
Andrà bene. Risolveremo tutto. Non devi preoccuparti. Tutto è sotto controllo.
Lo ripeteva ancora e ancora, senza fine.
Crack. Qualcosa dentro di me si ruppe.
L'odio verso quelle parole salì velocemente, quante volte me lo aveva detto?
Potevo sentire il mio viso rosso dalla rabbia.
"Perché mi dici questo, se sai che è una menzogna?" Avrei voluto dirle, ma non desideravo vederla più devastata di quanto fosse in questo momento.
Mia madre cercava di fare del suo meglio, provava a tenerci sereni malgrado la situazione, eppure ormai a cosa serviva illuderci con un futuro prosperoso?
Lei non aveva il potere di cambiare nulla, non sarebbe mai riuscita a farlo.
Ma io si. Volevo e dovevo.
Diedi un'ultima carezza sulla testa di mia madre, poi mi alzai e presi il primo oggetto affilato che vidi.
Mia madre nemmeno lo notò, era troppo presa dalle sue emozioni, e io ne fui felice.
La lama del coltello risplendeva, e mai nella mia vita provai una sensazione come quella.
Il potere, nessuno mi avrebbe potuto fermare.
Immaginavo mia sorella stesa a terra, che pregava per farmi smettere.
Il suo sangue che abbandonava velocemente il suo corpo, e in poco tempo non sarebbe stata più un problema per noi.
Sentivo il mio fiato più veloce, e le urla di mia madre e forse anche di mio fratello.
Avrei detto "Vedi mamma? Adesso non dovrai più preoccuparti".
Avrei sorriso mentre pronunciavo quelle parole, e poco mi importava se sarei stata messa al cappio pochi giorni dopo.
Camminai con passi veloci e silenziosi, gli occhi ispezionavano ogni centimetro della casa, facendomi notate dettagli che mai nemmeno con la coda dell'occhio avevo visto: nell'angolo in alto a sinistra del bagno era presenta un po' di muffa; nella camera dei miei genitori il fiore preferito di mio padre era appassito; nel corridoio piccoli sassolini erano stati portati dall'esterno.
Di mia sorella però non c'era traccia.
Aprì l'ultima porta che mi mancava, e strinsi il manico del coltello ancora più saldamente.
Mio fratello sdraiato sul suo letto stava leggendo tranquillamente.
Si girò verso di me, e in poco tempo i suoi occhi si sgranarono.
"Cosa stai...?" Provò a chiedere, ma non lo ascoltai neppure.
"Dov'è Hiroko?" Chiesi non vedendola li, anche se era più un ordine.
Si alzò sbadatamente, posò il libro sul suo letto.
"Kiyo, cosa vuoi fare con quello?" Domandò con voce traballante.
"Kosuke. Dimmi dov'è Hiroko" dissi nuovamente.
"Sorella mia, non devi. Non.." cercò di convincermi.
"Dov'è" ribadii di nuovo.
"Hai una brutta cera, dovresti riposare. Posa quel coltello, Kiyo" si avvicinò lentamente di qualche passo, con le mani davanti a lui, per mostrarmi che non aveva intenzione di farmi nulla "Kiyo, non sei in te...Posalo e parliamo con calma, possiamo risolvere tutto insieme" Affermò.
"Non c'è nulla da risolvere, e anche se ci fosse non potresti farlo" risposi, costringendomi a non urlare.
"Kiyo, va tutto bene sai?"
Va tutto bene.
Quelle parole risuonarono nella mia mente come se fossero gli unici vocaboli a me comprensibili.
"NON C'È NULLA CHE VA BENE" strillai, ormai fuori di senno.
Possibile che mio fratello, colui che più amavo e colui che più mi amava, non riusciva a capirmi?
Si spaventò, fece un passo indietro.
"Perché continuate a dirlo, eh? Cosa vedete di 'bene' in tutta la nostra vita?" Gli sbraitai senza contenermi.
Questa volta ero io ad avvicinarmi a lui.
"Non è così che riuscirai a risolvere il tutto. Kiyo, perché non mi ascolti? Io voglio solo il tuo bene, lo sai!" Provò tutto per farmi calmare, ma le sue parole ebbero l'effetto contrario.
Gli saltai addosso, lo pugnalai una volta, poi due, poi tre, e quattro, e cinque, e poi ne persi il conto.
E secondi dopo il pavimento era tinto di rosso, così come le mie mani e la lama del coltello che ancora risiedeva nel suo corpo.
Lo guardai, steso fermo sotto di me.
La bocca leggermente aperta, gli occhi spalancati.
Adesso almeno non dovrai più patire per le azioni di Hiroko.
Mi alzai, ripresi l'arma e mi trascinai in corridoio, aiutandomi col muro per camminare.
Ormai ero certa solo di una cosa: Hiroko era già andata via.
Forse si era presentata solo per prendere altri soldi, come è sempre stato suo solito fare.
Se non posso ucciderla, allora farò si che non ferisca più nessuno della mia famiglia.
Sentivo le braccia pesanti come cemento, camminavo senza guardare davvero qualcosa.
Le gocce di sangue cadevano dal coltello ad un intervallo regolare.
Mia madre mi venne incontro, probabilmente a causa delle urla di prima.
"Mio Dio, cosa è success-" notò poco dopo le lama che tenevo solidamente tra la mano.
Si paralizzò, non seppe più cosa dire, ne cosa fare.
Le lacrime scesero ancora dalle sue guance, e per poco non cadde a terra senza forze.
"Kosuke...Kosuke sta bene..?" Chiese con tono debole.
Mi sorpassò velocemente, andò in camera di mio fratello.
Seguì un urlo, delle lacrime e delle parole cariche di panico.
Andai nuovamente da lei, la vidi inginocchiata vicino al corpo di suo figlio.
"Non devi più preoccuparti, mamma. Adesso penserò a tutto io. Non dovrai più piangere per le azioni di Hiroko, non dovrai più pregare per far si che la situazione migliori. Adesso farò in modo di risolvere tutto" dissi con voce più calma di quanto mi fossi aspettata.
Continuai ad avvicinarmi, mentre lei si girò per guardarmi.
Non disse nulla, non c'era alcuna parola che poteva rivolgermi.
Ormai era stato fatto, non c'era modo per cambiare il passato.
Non urlò nemmeno quando il coltello le trapassò il cranio.
Cadde affianco a Kosuke, e non si mosse più.
Li osservai con occhi stanchi, chiedendomi cosa avrei dovuto fare adesso.
"Sono a casa" sentì dire.
Mio padre era tornato dal lavoro.
Lo raggiunsi velocemente, e prima ancora che mi potesse chiedere come e di cosa mi ero sporcata, lo accoltellai allo stomaco.
Estrassi subito dopo l'arma, e non feci nient'altro.
Lo guardai traballare, e dopo un po' cadere.
A quel punto sorrisi debolmente.
"Nessuno vi potrà ferire oltre" queste furono le ultime parole che mio padre fu in grado di sentire -e in seguito mi ritrovai a sperare che avesse capito il motivo che mi aveva spinta a compiere il tutto-.
Lasciai cadere a terra l'arma, andai in camera mia e mi tolsi il kimono ormai tinto di sangue.
Camminai verso il bagno, e riempii la vasca d'acqua calda.
Andai a dormire nella mia camera, per la prima volta senza alcun tipo di pensiero.
Il giorno seguente mi alzai come se non fosse successo nulla, andai in cucina e mangiai del riso al vapore.
Sentii l'assenza della mia famiglia, ma ormai poco importava, li avevo uccisi.
Terminata la mia breve colazione presi un libro e, sorpassando il cadavere di mio padre, mi diressi al piccolo lago presente fuori casa.
Mi sedetti sotto un albero e non pensai a nient'altro che alle parole che leggevo.
Dopo un'ora circa posai il libro per terra, e riflessi su una supposizione entrata nella mia testa per puro caso.
Cosa avrei fatto che qualcuno mi avesse scoperto?
Però nessuno veniva mai a casa mia, quindi chi mai sarebbe venuto a saperlo?
Inoltre, anche se qualcuno mi denunciasse, che importanza avrebbe vivere?
Il giorno successivo la casa fu invasa da un enorme fetore, a tal punto che fui costretta a sistemare i corpi.
Li avrei potuti buttare nel lago, legando una pietra alle loro gambe così che non venissero a galla.
Però appena andai a prendere mio fratello l'idea abbandonò completamente la mia mente.
Non si meritava un tale trattamento, né lui né i mei genitori.
Andai quindi nel ripostiglio e presi la pala -solitamente usata da mia madre per sistemare la terra fuori casa-.
Uscii e mi allontanai di qualche metro.
Legai i miei lunghi capelli rosei e iniziai a scavare una buca, abbastanza lunga e altrettanto larga.
Ci misi molto, feci molte pause, ma alla fine non mi pentii del mio lavoro.
Era ormai l'ora di pranzo quando tornai a casa, troppo stanca per prepararmi qualcosa da mangiare.
Mi buttai sul letto e non feci nient'altro per un bel po' di tempo, ignorai addirittura l'odore tremendo che infestava la mia casa.
Dopodiché preparai del ramen istantaneo, la cosa più semplice da cucinare che trovai.
Dopo aver pranzato decisi di continuare ad occuparmi della mia famiglia, così misi dei guanti, presi un panno e una bacinella riempita d'acqua.
Portai il tutto in camera di mio fratello, dove giacevano i corpi di mia madre e di Kosuke.
Decisi di occuparmi prima di lui.
Spostai mia madre, così da avere molto spazio a disposizione.
Feci lo stesso anche con mio fratello, allontanandolo dalla grande pozza di sangue creatasi due giorni addietro.
Iniziai a passare il panno con cura sulla pelle del suo volto, togliendo tutti i residui di sangue.
Quando finii passai il panno nell'acqua, e in seguito gli tolsi la maglia.
Fui travolta da un breve senso di nausea, ciò che stavo guardando era a dir poco orripilante.
I miei occhi non riuscivano a distogliersi da tutte quelle ferite, ricoperte ovviamente di sangue.
Quanto avrà sofferto? E mia madre? E mio padre?
Fu in quel momento che iniziai a dispiacermi.
Continuai lo stesso, pulendo il suo corpo dal liquido cremisi che ormai lo aveva abbandonato.
Gli misi poi i primi vestiti che trovai, e lo osservai.
Era come nuovo, solo un po' più pallido; solo un po' più freddo.
Gli chiusi gli occhi, e rimasi in silenzio difronte al lavoro terminato.
Sembrava stesse dormendo, come se non lo avessi mai pugnalato due giorni prima.
Avrei voluto abbracciarlo, chiedergli se gli andava di giocare -a scacchi se mai, adorava quel gioco-.
Ma anche se lo avessi fatto sarebbero solo state inutili parole al vento.
Feci lo stesso con mia madre e con mio padre, e quando finii l'orologio segnava le quattro del pomeriggio.
Presi un lenzuolo, adagiai mio padre su di esso e iniziai a trascinarlo verso la buca che avevo scavato quella mattina.
Portai poi mia madre, e infine Kosuke.
Mi risposai sotto un'albero li vicino, e una decina di minuti dopo continuai il mio lavoro.
Presi mio padre e lo stesi all'interno della buca, poi feci lo stesso con mio fratello, e poi con mia madre.
Li sistemai per bene, e mi fermai a guardargli per l'ultima volta.
Mio padre e mia madre che abbracciavano mio fratello, sarebbe stato bello aggiungermi a loro.
Presi la pala -che avevo lasciato li- e riempii nuovamente la buca.
Adesso non rimaneva più nulla di loro, erano scomparsi da questa terra come se non fossero mai esistiti.
Nei giorni successivi pulii tutta casa, così avevo finalmente finito di sistemare l'abitazione.
Ci fu anche una novità: il senso di colpa.
Alcune volte andavo alla loro 'tomba' e pregavo per il perdono, speravo mi potessero sentire.
Mi dispiace, lo giuro!
Mi mancate.
Vorrei che foste ancora qui.
Vorrei non avervi mai ucciso.
Me ne pento molto, vi prego perdonatemi.
Rimanevo li a piangere, in sola compagnia dei ricordi felici che avevo con loro.
Avrei dato di tutto per vedere ancora il sorriso di mia madre, oppure per sentire le risate di mio fratello.
Ma la vita non può avere una seconda possibilità.
Passai due settimane in completa solitudine, stando nella casa in cui avevo assassinato la mia stessa famiglia.
Ogni giorno era uguale a quello prima, non si distinguevano affatto.
Poi dopo tutto quell'odiato periodo di solitudine arrivò qualcuno.
Sentii solo la porta aprirsi e dei passi, nient'altro.
Che fosse la polizia?
"Hai fatto un bel lavoretto, Kiyo" la frase risuonò per tutta la struttura.
L'unica persona sulla faccia di questo pianeta che desideravo morta: mia sorella.
Mi iniziò quasi a mancare la solitudine provata in quei giorni, la preferivo a Hiroko.
La raggiunsi subito, purtroppo disarmata.
Kiyo: "Perché sei qui" chiesi irritata.
Hiroko: "Di solito nostra madre mi chiama ogni sera,  eppure guarda caso non ricevo più nemmeno un messaggio da lei. Dimmi un po', come l'hai uccisa?" Domandò a sua volta, stuzzicandomi.
Kiyo: "Vattene da qui" ordinai.
Hiroko: "Dovrei lasciare la mia dolce sorellina a morire di fame?" Chiese con un tono falsamente preoccupato.
Kiyo: "In tutta la tua vita non hai mai pensato a me, perché dovresti iniziare ora?"
Hiroko: "Ti comprerò un'altra casa, credo che tu non abbia molta voglia di rimanere qui, vero?" Cambiò argomento.
Era vero: odiavo questo posto per tutti i ricordi che mi tornavano in mente ogni secondo.
Hiroko: "A giudicare dal tuo sguardo posso dire che sei interessata. Lo farò davvero, ma a una condizione" aggiunse poi.
Kiyo: "Continua" risposi velocemente.
Hiroko: "Entra nella mafia"
Quell'affermazione mi sorprese, ma accettai allo stesso modo.
Non le chiesi il perché, non mi interessava saperlo.
Ciò a cui miravo era solo e soltanto un nuovo posto dove vivere.
Lo trovò subito, due giorni dopo mi disse di preparare tutte le mie cose.
"Benvenuta nella tua nuova casa, Kiyo" mi disse solo, entrando nell'abitazione.
"Non usare più quel nome" le ordinai.
"E come ti dovrei chiamare? Essere vivente?" Domandò stufa.
Ci stavo pensando da un po' ormai: il nome 'Kiyo' non mi si addiceva più.
Voleva dire 'pura', ma io non lo ero.
"Haruka" risposi senza dire altro.
'Distante', 'lontananza' questo era ciò che mi descriveva ormai.
Ero lontana dalla mia famiglia, così come dalla 'me pura' di un tempo.
"Haruka sia, allora" confermò, e poi se ne andò.
Ciò che successe dopo di quello non aveva molta importanza: mi allenai e in seguito entrai nella mafia come desiderava mia sorella, diventando ufficialmente una sua collega.
Non ero più Kiyo: ero conosciuta da tutti come Haruka.
Ciò che mi divertiva di più nella mia nuova vita era osservare l'espressione di mia sorella quando mi vedeva di ritorno da una missione.
Sono ancora viva, e lo sarò per molto.
Probabilmente non si aspettava così tanto da me, ma poco importava: le nostre strade si erano separate ormai.
Il più grande cambiamento fu quando il grande Dazai Osamu, il leader più giovane della storia della Mafia, mi ordinò di badare alla sua subordinata, e chi ero io per rifiutare?
Non capivo perché avesse scelto me tra tanti, ma almeno mi erano garantiti dei giorni di pace.
Ma non facevo altro che chiedermi: chi era la subordinata di Dazai?
Lui è sicuramente uno tra i più temuti agenti della Port Mafia, e non mi aspettavo niente di meno dalla sua sottoposta.
Forse una donna spietata, che si è macchiata già di atroci crimini; oppure una ragazza con un potere troppo feroce per essere lasciata da sola.
Eppure se avesse davvero avuto un potere perché non usare quello di Dazai per contrastarlo?
Mi stupii quando realizzai che la temuta sottoposta non era altro che una bambina di dodici anni.
(T/n) (T/c), una ragazzina dal viso così grazioso che a malapena riuscivo a credere che lavorasse davvero per la Port Mafia.
Mi fece vedere la sua camera, a quanto pareva era un'amante della lettura.
Lei osservava silenziosamente ogni mio movimento come per studiarmi.
"Perché non usciamo?" Le chiesi.
"Non posso, mi è vietato. Dazai-san non te l'ha detto?" Rispose.
"Dazai-san non lo verrà a sapere. Dai su, conosco proprio un bel posticino in cui non va mai nessuno!"
La presi per mano e la portai a quella che un tempo era la mia casa.
L'abitazione fortunatamente non si vedeva: la vegetazione la copriva completamente.
Ci fermammo davanti al lago, dove di solito trascorrevo i miei pomeriggi con Kosuke.
Anche lei, come me, aveva perso la sua famiglia.
La differenza era che io lo avevo fatto volontariamente, lei no.
Mi fece vedere il bracciale di stoffa rossa che portava sempre sul polso, mi rilevò che era il nastro di sua sorella.
Con il passare del tempo fui in grado di notare come il suo comportamento cambiasse se vicino a lei ci fossero stati Chuuya o Dazai.
Si fida di loro mi dicevo, eppure mi chiedevo come.
Chuuya è sempre stato conosciuto per la sua grande forza, ma quello che mi puzzava di più era il moro.
Non possedeva un potere offensivo, per questo sembrava più debole di Chuuya, eppure la sua potenza risiedeva nella sua mente.
Un demone dalle sembianze umane, lo avrei descritto così.
Eppure questo stesso demone si comportava così bene con la ragazza.
Possibile che (T/n) non fosse stata in grado di capire come quella fosse solo una maschera?
Oppure ne era conoscenza, ma preferiva non dire nulla?
No, impossibile.
I suoi sorrisi non erano falsi, quella ragazza adorava per davvero il castano.
Come faceva a essere così ceca?
Mi dispiaceva per lei, ma allo stesso tempo non riuscivo a dirglielo.
Piano piano mi accorsi che mi stavo davvero affezionando a quella ragazza, e non sapevo se pentirmene o esserne felice.
Iniziai ad avvertirla del suo futuro lavoro: le raccontai quanto era pericoloso, che sarebbe potuta facilmente morire e che avrebbe dovuto uccidere nuovamente.
Ed ero sicura che alcuni dubbi iniziarono a sorgere nella sua mente, ma allo stesso modo ero anche sicura che avrebbe continuato comunque per quella strada.
Avrei voluto supplicarla di scappare da li, di venire con me.
Le averi assicurato un futuro migliore, l'avrei aiutata a diventare una dottoressa esattamente come sognava.
Eppure non mi avrebbe mai ascoltato: ero consapevole che preferiva Dazai.
Sarebbe rimasta al suo fianco, anche se questo avesse voluto dire morire in uno dei modi peggiori.
Per questo non la pregai mai, ma continuai a suggerirle di cambiare strada.
Mai avevo pensato che quelle stupide frasi avessero fatto effetto sulla ragazza, fino a quando un giorno vidi lo sguardo di Dazai.
Era tranquillo, sereno, gioioso anche, ma più del solito.
Quello era il mio campanello d'allarme: Dazai non avrebbe mai potuto così se non per un qualcosa di importante.
Lo capii una volta tornata a casa: la mia morte era ormai vicina.
Stavo mandando (T/n) su un cammino diverso da quello voluto dal moro, e questo ormai mi era costato la vita.
Ma infondo cosa mi aspettavo? Di venire e distruggere il piano del leader più giovane della storia della mafia, forse? Non era forse ovvio che si sarebbe sbarazzato di me?
Quel giorno non riuscii a chiudere occhio.
Non perché avessi paura, assolutamente no, ma per il fatto che ero sicura di morire e non me ne stavo preoccupando.
Era questo ciò che mi sorprendeva: una persona normale, al mio posto, avrebbe pianto a non finire.
Arrivò poi il giorno in cui sarei dovuta andare nuovamente da (T/n).
Mi preparai per bene: mi vestii di nero e -forse per la prima volta dopo tanto- mi sistemai i capelli in un taka shimida.
Era come un lutto, solo fatto in anticipo.
Avevo infatti ricevuto un nuovo incarico e ci potevo tranquillamente leggere sopra 'suicidio'.
Era così che aveva voluto agire Dazai, come avevo fatto a non pensarci.
Ovviamente il Boss lo avrebbe ascoltato e assecondato, questo era il suo modo di sbarazzarsi di me.
La ragazza sembrò non capirlo, pensò che quel mio abbigliamento era dovuto a un successivo appuntamento.
Non diventare mai dipendente da qualcuno, le dissi quel giorno.
E fu l'ultima cosa 'importante' che fui in grado di dirle, in quanto non fui più in grado di vederla.

"Chi sono io?" Bisbigliai stesa a terra.
Il sangue abbandonava piano piano il mio corpo.
Chi sono io?
La pozza incominciava ad aumentare.
Chi sono io?
Riuscivo a sentire la forza che lasciava i miei muscoli.
"Chi sono io?"
Guardai il mio corpo smettere di respirare.
Guardai il mio cuore smettere di battere.
Guardai le mie pupille smettere di dilatarsi.
E mentre osservavo tutto quello, la mia anima si sgretolava lentamente.
E quindi, chi sono io? Nessuno.
Sin dalla nascita lo sono stata, e così lo sarò anche nella morte.
Lascerò questo mondo senza nemmeno far sapere a (T/n) il mio vero nome, Kiyo.
Mi dispiace per questo, avrei voluto non mentirle su nulla.
Ma alla fine desideravo ancora di più un futuro più prosperoso per lei.
E così me ne andavo con la sola speranza di aver fatto aprire gli occhi a quella ragazza, perché in fondo in lei rivedevo il mio caro Kosuke.
Una bambina che si fida di qualcuno che la porterà alla rovina, esattamente come lui che si è fidato di me, e in cambio non ho fatto altro che ucciderlo.
Mi dispiace, e spero che tu almeno, (t/n), possa vivere in modo migliore.

"Guarda tu che sacrifici che mi fai fare..."
Nessuna risposta.
"Lo sai quanto mi sei costata?"
Nessuna risposta.
"E sai tutto quel tempo come lo avrei potuto utilizzare? Sarebbe stato più utile guardare il muro"
Nessuna risposta.
"Alla fine sei morta. Ma stai tranquilla, sei durata molto più di quel che mi aspettavo.
Forse saresti stata più felice se ti avessi seppellito insieme ai tuoi cari, ma ci avrei messo il triplo del tempo.
E poi come avrei dovuto fare? Andare in giro con un cadavere fino a li? Nemmeno per sogno.
Accontentati, e anzi, dovresti ringraziarmi.
Alla fine sai che sei proprio un'idiota? Sei morta senza nemmeno sapere che sei riuscita a far scappare quella ragazza.
Okay okay, poi è tornata. Ma hey, è già qualcosa no?
Non vuole forse dire che le tue parole sono riuscite a fare qualcosa di buono?
Almeno puoi dire di essere morta facendo qualcosa di sensato.
...
Ma no cosa dico, non puoi saperlo, sei morta.
E ovviamente non puoi nemmeno dirlo.
Ti sei mai chiesta perché ti ho salvato, facendoti trasferire altrove?
Beh sai, so di essere una persona orribile, però devi sapere che ho sempre avuto compassione di te.
Questo non mi rende un po' migliore?
Certo, certo. Ti ho fatto entrare nella mafia, però dai, avevo bisogno di sapere quanto saresti sopravvissuta.
Tanto la vita non ti stava a cuore, o sbaglio?
Però almeno sei riuscita a sorprendermi.
Hah! Hai praticamente sputato su Dazai quando hai deciso di far cambiare strada a quella bambina.
Non riesco nemmeno ad immaginare cosa abbia pensato quell'uomo quando lo è venuto a sapere.
Hai davvero avuto un grande coraggio, questo non lo posso negare.
...
Senti, il fatto che non ricevo una risposta mi sta altamente irritando.
...
Cosa dico, è inutile cercare un dialogo con una lapide.
Salutami la nostra famiglia, risposa almeno nella morte.
Addio, Kiyo"

Angolo autrice
Buon giorno ragazzi miei!
Dopo tanto, eccovi un nuovo capitolo!
Onestamente è da un po' che pensavo di portare la backstory di Haruka, però ho deciso di iniziare a scriverla davvero solo due settimane fa circa.
Ho avuto bisogno di molto tempo per collegare meglio gli eventi e per entrare nella logica del personaggio, però devo dire che il risultato non mi dispiace affatto!
So che è un capitolo mooolto lungo ( 5790 parole circa), ma non volevo assolutamente fare una parte due, in quanto credo che avrebbe rovinato un po' "l'esperienza di lettura".
Cosa ne dite poi del nuovo stile di scrittura usato?
Devo dire che personalmente a me piace, però penso comunque di non scrivere in questo modo i capitoli della storia principale.
Inoltre, sono davvero curiosa di sapere chi pensavate che stesse narrando la storia, in quanto l'ho rivelato solo dopo un bel po' di tempo.
In ogni caso spero come sempre che questo capitolo vi sia piaciuto, e mi scuso per eventuali errori.
Ci risentiamo al capitolo 34, un bacio!

ᰔ𝓝𝓸𝓷 𝓹𝓸𝓼𝓼𝓸 𝓪𝓶𝓪𝓻𝓮ᰔ(DazaixReader)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora