28- una via d'uscita

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Gerard
Quando un paio occhi color salvia ti implorano di aiutarli mentre un uomo li tortura, non puoi far altro che stare a guardare.
Per paura, o per rabbia. Per quello che ti potrebbe fare il tuo stesso padre se solo ti opponessi a lui, o per quello che ti hanno portato via quegli occhi.

Rimani immobile, anche se preferiresti non guardare quelle scene; anzi, ti ritrovi a fare le stesse, identiche cose. Ti ritrovi ad essere un mostro, proprio come lui.

Sento in lontananza la sua voce, tanto assordante da entrarmi nell'anima, per poi non uscire più.
Che cazzo di fastidio. Odio tutto questo. Odio... odio, punto.

Le sue urla sono una cazzo di tortura, e non fanno altro che aumentare la mia rabbia.
Ne ho tanta dentro di me e non so mai come sfogarla.

Con i gomiti poggiati sulla scrivania in legno e le mani premute sulle orecchie, fisso i calcoli matematici sotto di me. Il quaderno aperto, la penna blu gettata in qualche angolo della mia camera, e io immobilizzato dalla voce acuta di mia sorella dal piano di sotto.

Sono stanco, e vorrei solo un po' di pace nella mia testa. Voglio solo non sentirla più.
È tutta colpa sua. Lei disobbedisce sempre, risponde sempre male, e ogni volta fa incazzare nostro padre in una maniera assurda.
Merita tutto quel male. Merita ogni schiaffo, purché stia zitta e la smetta di perseguitarmi ogni notte, in ogni cazzo di sogno.

Poso la fronte sul foglio dei compiti di matematica strizzando gli occhi, come se questo servisse a placare la tempesta dentro di me.

I bip costanti ma fastidiosi del monitor mi risvegliano, costringendomi ad aprire le palpebre pesanti e stanche.
Sollevo la testa dal letto freddo, fissando senza alcuna emozione il ruvido lenzuolo azzurro che ricopre il duro materasso.

La prima cosa che vedo è la mano bianca di mio padre. Quando ho provato a toccarla ieri sera, ho sentito la sua freddezza e la rigidità... come se fosse una statua di gesso.

Con gli occhi percorro il suo braccio peloso e pallido, per poi risalire a quel camice azzurro striminzito che copre il suo corpo.
È piombato nel sonno, immergendosi nel silenzio di questo maledetto ospedale.

Il suo petto si alza e si riabbassa con movimenti quasi impercettibili, come se faticasse persino a far entrare un po' d'aria nei suoi polmoni marci.
Si sta sforzando di vivere.

Il fatto è che mio padre non merita un cuore che batte. O almeno, non lo merita più.
Prima, quando avevo quattro o cinque anni, era tutto molto diverso, e avrei voluto che la mia famiglia restasse così ancora per molto tempo.

Non ho molti ricordi di mia madre.
So soltanto di aver preso da lei i suoi occhi color nocciola, e i suoi capelli neri come la notte; ricordo l'odore dei suoi biscotti di prima mattina, le sue risate contagiose e dolci, le sue sgridate che non avevano proprio nulla di cattivo.
E so anche che Beth me l'ha portata via.

Lei mi ha portato via anche mio padre.
Da quando sua moglie è morta, non ha retto il colpo e si è buttato sull'alcol e sul fumo, facendosi distruggere da quei vizi e distruggendo al tempo stesso la sua stessa famiglia.
Fa schifo, sì, ed è diventato tutto uno schifo solo per colpa di mia sorella.

Io non la volevo. Stavo bene da solo, giocando con i miei trattori e con le mie macchinette in miniatura, sognando di diventare un astronauta prima ancora di addormentarmi, e rincorrendo i grilli in giro per il giardino sotto la luce del sole.
Non ti volevo, Beth.

𝓣𝓾𝓽𝓽𝓸 𝓓𝓲 𝓣𝓮Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora