Parte 2 La missione di Apollo

545 31 0
                                    

Nelle profondità dell'Etna non arrivava la luce del sole. Il dio Apollo accelerò il passo, tra i cunicoli e le pareti incandescenti e rocciose che conducevano all'officina di Efesto.

Sbuffò. Era inconcepibile per lui che un dio si rinchiudesse volontariamente lì dentro, proprio sopra il titano Tifeo, incatenato e pronto a dare scossoni che facevano eruttare il vulcano.

Lui non l'avrebbe mai fatto, non importava quante umiliazioni gli altri dèi potessero infliggergli. Non che ci avessero mai provato. Il suo volto e il suo corpo erano troppo perfetti perché venissero nascosti alla luce del sole e agli occhi degli umani e delle altre divinità.

Tossicchiò e fece del suo meglio per ignorare il fumo che aleggiava nella stanza. Scorse Efesto piegato in avanti, un martello tra le mani, la schiena ingobbita da movimenti sempre uguali, le dita nodose che stringevano e modellavano, le gambe corte e muscolose, i capelli neri come il carbone che gli ricadevano sul viso squadrato e privo di ogni grazia.

Non era nato così. Sua madre Era lo aveva generato senza padre, solo per vendicarsi dei tradimenti di suo marito Zeus, e poi, appena nato, lo aveva fatto rotolare giù dall'Olimpo, trasformandolo in un bambino gobbo e zoppo.

Nelle narici di Apollo svanirono le note della ginestra e della camomilla che crescevano selvatiche sulle pendici del vulcano. Era dovuto arrivare fino in Sicilia per avere ciò che gli serviva. Curvi alle loro postazioni, i ciclopi, aiutanti di Efesto, lavoravano alacremente: i martelli di bronzo sulle incudini sbalzavano e modellavano ciò che gli altri dèi avevano ordinato, da vasi a tripodi, da gioielli preziosi ad armi letali, da scudi ad elmi.

Efesto aveva dato presto prova della sua abilità. Tanto tempo prima aveva costruito un trono d'oro per sua madre. Era non aveva immaginato l'inganno né che il figlio che aveva sfigurato volesse vendicarsi di lei. Una volta seduta su quel trono era rimasta immobile, incapace di alzarsi. Efesto l'aveva liberata in cambio del permesso degli dèi di sposare Afrodite. Che illuso a pensare che la dea della bellezza potesse amarlo, quando il suo petto già palpitava per Ares, il dio della guerra. A Efesto erano rimasti il rifugio nell'Etna, un lungo elenco di tradimenti, la cocente delusione e la sua abilità di fabbro.

Non c'era oggetto usato dagli dèi che non provenisse da quella fumosa e incandescente fucina. Lui stesso era lì per quello.

«Sono pronte?», domandò con un tono perentorio.

Un ciclope sbuffò infastidito, forse gli uomini in quel momento avrebbero visto una nuvola di fumo fuoriuscire dal cratere del vulcano e ne avrebbero provato timore.

Apollo non aveva paura di contrariare quei giganti. Trainava il carro del sole, era già dio della musica e delle arti mediche. I ciclopi incatenati non potevano far nulla contro di lui e non solo perché sua madre Leto era figlia di due Titani. Ai ciclopi spettava la condanna del lavoro eterno, una sorta di assaggio di Ade, a lui, invece, spettavano il sole, la luce la gioia.

«Allora?» Apollo incalzò Efesto.

Il dio del fuoco sollevò la testa, incrociò il suo sguardo rivelando una scia di sudore sulla fronte che baluginava alla luce delle fiamme rossastre. Impugnò il bastone che usava per camminare.

Apollo arricciò il naso, nell'aria aleggiava una nota debole di mirto, segno che Afrodite doveva essere passata di lì, probabilmente solo per prendersi gioco del suo sfortunato sposo.

«Quelle frecce mi servono subito».

«Subito...», bofonchiò Efesto. Persino lui, tutto fucina e fuoco, era soggiogato dalla sua bellezza, dallo splendore che gli aveva fatto guadagnare l'epiteto di Febo. Apollo si beava del suo potere, della natura divina che lo distingueva dagli umani fragili e mortali. Quanti più epiteti e potere avesse guadagnato tanto meglio. In fondo, doveva pur occupare il lungo tempo dell'eternità.

Il dio del fuoco si asciugò la fronte con il dorso della mano, gli rivolse lo sguardo sospettoso che Afrodite gli aveva insegnato. «Eccole». Diede un ultimo colpo con il martello, poi sollevò una freccia dorata, acuminata e letale, proprio come Apollo desiderava. Era uguale alle altre che rilucevano sul tavolo di bronzo. Sua sorella Artemide aveva già le sue frecce dorate e il suo arco d'argento.

«Avevi già le tue armi», disse Efesto con tono cupo.

Il dio raccolse le frecce e le infilò nella faretra di cuoio, liscio come la buccia di una pesca matura al punto giusto. «Queste devo usarle per qualcosa di speciale, qualcosa che non ti riguarda». Lo fulminò con lo sguardo e l'altro tornò a lucidare le frecce d'oro rimaste sul tavolo.

Un rumore di passi lievi irruppe tra il battito dei martelli e gli sbuffi dei ciclopi. Artemide comparve al suo fianco, il chitone candido e corto sulle ginocchia a lasciare intravedere le gambe agili dai muscoli allungati, la curva dei polpacci rosei, le braccia appena dorate dal sole che le accarezzava durante le lunghe battute di caccia. Sulle spalle le cadevano i capelli ramati che sfuggivano all'acconciatura sulla nuca. Un fermaglio di avorio a forma di quarto di luna le ornava la testa. Portava con sé il profumo dolce dell'erba di primavera e quello acre del sangue delle sue prede. Assomigliava a sua madre, mentre lui aveva preso i colori del cielo e del sole: le iridi azzurre e i capelli dorati.

Gli occhi di miele della dea passarono in rassegna il luogo di fumo e sudore. «Guarda in che posto mi hai fatto venire».

«Efesto ha un regalo per te», le disse Apollo, fissando il suo volto ovale, la lancia che la sorella stringeva in un pugno. Si somigliavano nella forma del volto, ma in quello della dea della caccia il piglio determinato non nascondeva i morbidi lineamenti femminili.

«Ascolta, Apollo, ho degli impegni a cui tenere fede», lo riscosse Artemide. «La luna cresce in cielo grazie a me».

Lui sorrise ironico. «E scompare grazie a Ecate».

Artemide strinse la presa sulla lancia. «Non nominarmi quella, che passa dall'Olimpo all'Ade come se nulla fosse».

«Un potere che manca a noi altri», rifletté lui, nel petto la punta di amarezza che lo coglieva sempre quando pensava a un potere che gli mancava. L'Ade era precluso alle anime dei vivi, e cos'era più vivo di un'anima che non avrebbe mai conosciuto al morte? Respinse quel pensiero, e fece un cenno a Efesto. Quello raccolse le frecce d'oro destinate ad Artemide e gliele porse.

Sua sorella ammiccò, una luce negli occhi allungati, abituati a guardare tra i cespugli e i tronchi fitti delle foreste per catturare le sue prede, abituata anche ad accorrere in soccorso delle partorienti, nonostante il suo grembo non avrebbe mai conosciuto lo sbocciare di una nuova vita.

Artemide ne prese una e la soppesò tra le dita. Poi l'espressione di meraviglia lasciò spazio al lampo del sospetto. «Non mi hai risposto, Apollo. Cosa ci fai qui?»

Lui serrò le mascelle, maschili su un volto che conosceva l'armonia di quello di Afrodite. «Vado a ottenere giustizia», sibilò.

Efesto gli lanciò un altro sguardo preoccupato, ma si chinò subito a sistemare le frecce d'oro che gli spettavano.

«Vedi di non combinare guai». Artemide gli posò una mano sulla spalla, fresca come le sorgenti a cui amava abbeverarsi e ristorarsi con le sue ninfe. Solo le sorgenti avevano il privilegio di conoscere il suo corpo nudo. «Dimentica».

«Tu hai mai dimenticato chi ti ha fatto un torto?»

Non aveva bisogno di ascoltare la risposta. La mano di Artemide scivolò via dalla sua spalla e si posò sulla faretra che adesso era ricolma di frecce dorate. Era lungo l'elenco dei giovani che lei aveva punito per aver osato osservarla senza permesso.

«Sistema le mie frecce», ordinò a Efesto.

Il dio gli ubbidì. Adesso le sue dita nodose toccavano con riverenza il prodotto del suo ingegno e della sua arte, le accarezzava con sguardo amorevole. Forse neanche Afrodite, sua moglie, riceveva una tale adorazione. Gli occhi di carbone si erano persino ammantati di tenerezza, mentre inseriva a una a una le frecce nella faretra di Apollo.

«Bene», disse lui, già stanco dell'ambiente scuro e fumoso, in cui la sola luce era il fuoco adatto a piegare i metalli, che però scaldava troppo la pelle.

Rivolse a sua sorella uno sguardo di muto saluto e veloce come solo un dio poteva esserlo, si riprese la faretra e lasciò la Sicilia.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora