Parte 18 - La valle di Tempe

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L'aurora mise fine ai sogni agitati, con le sue dita rosate. Giacinto si mise a sedere. Un servo venne a svegliarlo, come era solito fare tutte le mattine, e gli disse che la tavola era pronta. Lui lo mandò via.

Non sarebbe uscito dal palazzo, e di certo non aveva intenzione di recarsi agli allenamenti con Apollo. Il modo in cui era stato trattato gli bruciava ancora, e sentiva che non poteva difendersi. Piegò un ginocchio e ci piantò sopra un gomito.

La luce di un nuovo giorno rivelò i colori e le figure degli affreschi. Erano scene di pugilato e di corsa che sua madre aveva commissionato agli artisti migliori per decorare la sua stanza. Adesso gli ricordavano solo i sogni che non avrebbe realizzato. Non con l'aiuto di Apollo, perlomeno.

Posso farcela da solo.

Balzò in piedi, ma quando fu sul punto di uscire qualcosa lo fermò.

Apollo stava sulla soglia, la tunica candida, la faretra sulla spalla, la colonna di alloro sulla testa e quei lineamenti a cui nessuna statua o dipinto avrebbe potuto rendere giustizia.

«Come sei entrato?», gli domandò Giacinto.

«Un dio entra ovunque, dovresti saperlo da tempo». Le sue labbra si incresparono in un sorriso.

Lo sguardo di Giacinto scivolò sul suo mento, sulla fossetta che lo tagliava appena come il fiore che germogliava da un bulbo liscio.

«Non verrò ad allenarmi con te».

«Bene, perché oggi volevo portarti in un posto dove allenarsi sarebbe fuori luogo».

Giacinto incrociò le braccia contro il petto. «Non credi che abbia già pagato il mio debito? Quante altre corse e piegamenti dovrò fare?»

«Lo decido io quando sarà abbastanza». Apollo serrò le mascelle, lo sguardo si indurì come il cielo d'acciaio da cui sta per scatenarsi una tempesta.

Fino a quando non aveva guardato negli occhi Apollo Giacinto non si era reso conto di quante sfumature potesse avere il cielo.

«Non puoi obbligarmi a correre né a tirare pugni», insistette.

«Sono cose che preferisci fare con gli altri?»

«Non ti devo spiegazioni».

Apollo gli si avvicinò, gli sollevò il mento con un paio di dita. «Ti sbagli, mi devi tutto, a cominciare dalla vita. E adesso seguimi».

Giacinto ingoiò un gemito di frustrazione. Non gli rimaneva altra scelta che ubbidirgli. Suo padre sarebbe andato su tutte le furie se avesse visto il dio Apollo uscire scontento dal suo palazzo.

«Dì al tuo servo di preparare il necessario per un viaggio», disse Apollo prima di voltargli le spalle.

I cavalli su cui montavano erano immortali. Giacinto non lo avrebbe detto al primo sguardo e neanche al secondo, se doveva essere onesto. Le criniere color latte, il manto candido interrotto da un'unica chiazza più scura sulla fronte non lasciavano presagire nulla di particolare in quelle creature. Giacinto aveva imparato che il divino era capace di mescolarsi al mondo degli uomini senza destare sospetti. Era un inganno anche quello.

L'Olimpo e i mortali non condividevano nulla, se non le fattezze.

L'unica cosa che differenziava quei cavalli dai loro simili destinati all'imputridimento delle carni era la velocità. Apollo aveva cavalcato tra foreste e pianure e in un battito di ciglia si era lasciato alle spalle Sparta.

Davanti ai loro occhi si era aperta la pianura tessala, un campo che da lontano sembrava nero e bruciato, tagliato da un corso d'acqua che vi scorreva sinuoso curvandosi più volte. Sullo sfondo si ergevano le montagne, innevate sulle cime più alte anche se era estate. Una di quelle cime era l'Olimpo, nascosta agli occhi umani da nubi dense e bianche.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora