Parte 17 - La solitudine di Giacinto

268 18 3
                                    

Giacinto camminò lungo la via principale della città. I templi dedicati alle divinità e quelli più piccoli dedicati agli eroi si alternavano ai pini e agli ulivi. Sulla pelle si sentiva addosso quel che rimaneva degli unguenti e degli oli che si era spalmato quella mattina.

Sulla strada si allungavano le ombre, la luce rossastra rifulgeva sui marmi dei templi e sul rame delle statue. A quale divinità si sarebbe potuto votare? Chi avrebbe potuto aiutarlo, se la causa del suo dolore era proprio un dio?

A sud della città le caserme si raggrumavano grigie, luogo di fatica e di sacrificio. Le evitava sempre, perché non voleva ricordare l'agoghè, le privazioni, la violenza.

Non hai voluto un erastḕs perché hai Zefiro.

Le parole di Apollo tornarono a martellargli nella testa e gli davano un senso di nausea. Odiava le carezze non volute di Zefiro, il brivido di freddo che gli increspava la pelle, il modo in cui si soffermava sulle curve e sui muscoli del suo corpo, sempre dopo gli esercizi, quando era stanco per correre via, come se gli piacesse toccarlo quando era più sensibile e più teso.

Una volta gli era persino apparso sulla collina che dominava la città, davanti al tempio di Zeus. Le sue ali racchiudevano le sfumature del tramonto, i suoi occhi quelle del cielo che aveva perso il suo sole. Non era l'azzurro vivo degli occhi di Apollo, capace di ricordare il mare trasparente o più profondo, ma un celeste sbiadito che sapeva di fine, di morte.

Non aveva allungato su di lui le mani, non lo aveva baciato con le labbra di un uomo, ma ogni volta che lo accarezzava con il suo soffio lo aveva fatto sentire violato.

Scosse la testa. Zefiro in quel momento non c'era. E neanche Apollo. Se cercava in lui una difesa e un aiuto, avrebbe dovuto dimenticarlo.

Era stato stupido a cercare protezione dal dio che aveva causato la rovina di sua sorella. Si vergognava pensando che in alcuni momenti aveva persino dimenticato Dafne.

Non erano stati i regali preziosi né gli unguenti profumati. Era un principe, viveva in un palazzo reale. La sua tomba sarebbe stata arricchita da maschere d'oro e oggetti intarsiati di pietre. Aveva unguenti e oli a sua disposizione e vasetti finemente decorati dove conservarli.

No, ad annebbiarlo erano stati i gesti gentili, le carezze leggere, gli sguardi con cui Apollo gli chiedeva il permesso di aiutarlo a spogliarsi, a spalmarsi gli oli, a detergersi con lo strigile. Il momento in cui lo avvolgeva con il suo mantello o la sua tunica.

In quei momenti aveva creduto al pentimento di Apollo, alla possibilità che loro...

Era sempre stata una fantasia irraggiungibile.

Costeggiò l'ippodromo. La polvere e la terra si alzavano sotto gli ultimi passi stanchi dei cavalli, turbinavano in un pulviscolo reso trasparente dalla luce radente. Gli atleti stavano in piedi sui carri, stringevano le briglie di più animali contemporaneamente e cercavano di resistere agli scossoni dei compagni. Sulla pelle lucida brillavano gli oli e il sudore, la barba riccioluta si agitava seguendo i movimenti del corpo. Erano atleti esperti, alcuni persino coronati d'alloro nei Giochi Olimpici. Non erano come lui, però. Non solo per l'età e le vittorie, ma perché per loro i giochi non erano altro che un passatempo.

Il vero onore se lo guadagnavano sul campo di battaglia. Uno di loro gli rivolse uno sguardo incuriosito e lui si allontanò, come se gli altri potessero vedergli in viso il cuore spezzato.

Durante gli allenamenti degli ultimi giorni aveva persino sognato che Apollo lo incoronasse. Un sogno inconfessabile, che lo lacerava e lo riempiva di vergogna per quello che l'alloro aveva sempre rappresentato per lui.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora