Parte 19 - Nell'isola di Apollo

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I monti brulli dell'isola di Delo declinavano verso il mare. La spuma delle onde si arricciava sulla costa, velo bianco e impalpabile che sfumava in un soffio.

Sua madre aveva partorito a nord dell'isola, sul monte Cinto, sotto le fronde di una palma, nei pressi di un lago salato.

Giacinto camminava a piedi nudi sulla spiaggia, le orme che scomparivano presto cancellate dalla risacca.

Così in fretta che non faccio in tempo a inseguirlo.

Apollo allungò il passo. Raggiunse il giovane fino a sfiorare la sua tunica candida, a sentire il profumo degli oli e degli unguenti con cui si era già deterso. Lo sguardo di Giacinto si spostò sulla grande statua di legno che lo ritraeva, con arco e frecce in una mano e con tre Cariti, tre personificazioni delle Grazie, nell'altra. I riccioli gli scendevano sul petto e inserti d'oro facevano baluginare le iridi, il petto nudo e i capelli.

«È più bella dell'immagine reale?», scherzò Apollo.

Giacinto schiuse le labbra. «Niente può essere più bello di un dio, neanche i metalli più preziosi e l'arte più raffinata».

«Di un dio o di me?»

«La tua statua è tra quella di tua madre e tua sorella», cambiò argomento l'altro.

Era bravo a sfuggire alle domande troppo dirette.

A sfuggirmi.

Ripresero a camminare. L'odore salmastro riempiva l'aria, e gli apriva i polmoni proprio come la prima volta che aveva assaggiato il mondo dei mortali, quando sua madre lo aveva partorito.

«Leto ci ha partoriti qui. Quest'isola prima si chiamava Ortigia, ma quando io e Artemide siamo nati è stata circondata dalla luce, è diventata visibile a tutti e il suo nome adesso significa mostrare. Non ci siamo potuti più nascondere nel momento stesso in cui Leto ci ha preso tra le braccia».

«Gli aedi raccontano la vostra storia».

«Ti raccontano anche delle sofferenze di mia madre? Di come abbia dovuto cercare un luogo che la ospitasse perché Era aveva vietato a tutti di offrirle asilo?»

Giacinto corrugò la fronte. Quando era triste le sue labbra si piegavano in un broncio ancora fanciullesco. «Mi dispiace».

«Ti ho portato qui per fari vedere dove sono nato, per farti capire che anche gli dèi possono soffrire».

«Vorrei che il Fato fosse buono con noi», si lasciò sfuggire Giacinto.

Il Fato non conosceva bontà o cattiveria. Il Fato si muoveva in un moto inesorabile, che travolgeva tutti senza distinzioni. Non si curava delle lacrime e dei sorrisi, né delle preghiere e degli scongiuri. Il Fato era come il sangue che sgorgava dalle arterie delle giovenche ai sacrifici, che macchiava le mani e le vesti degli officianti, che scorreva nelle coppe delle libagioni.

Se sarebbe caduta qualche goccia, se qualcuno sarebbe scampato alle trappole del Fato, nessuno poteva prevederlo, forse neanche il Fato stesso.

Apollo respinse l'inquietudine che gli mordeva il petto a tradimento. Allungò una mano sul volto di Giacinto. «Non ti ho portato qui per farti essere triste»

«Però c'è qualcosa che ti tormenta, lo sento. Non credevo che per gli dèi fosse possibile provare qualcosa di diverso dalla gioia. Dimmi cos'è».

Se solo lo sapessi con certezza.

«Niente di cui non possa occuparmi», lo liquidò. «Mi faceva piacere farti vedere questo posto, ma la ragione principale è che qui puoi correre nuotare, rafforzare i muscoli delle gambe e il fiato. Prima delle Olimpiadi potresti partecipare ad altri Giochi, magari durante le celebrazioni religiose».

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora