Parte 16 - La rabbia di Apollo

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Giacinto e Apollo si inoltrarono tra gli alberi fino a quando i tetti e le colonne di Sparta scomparvero, fino a quando non fu più possibile vedere le stoa o la struttura quadrangolare del palazzo reale, le caserme, le mura.

«Lì», disse Apollo, indicando un pino.

Giacinto sedette sotto l'albero. Sfiorò le fascette di cuoio che servivano per proteggere le mani dei pugili, il prezioso vasetto di alabastro a forma di delfino che conteneva oli e unguenti profumati, lo strigile di bronzo ageminato, i sacchetti ricolmi di farina e semi di fichi a cui tirare pugni, un disco di rame decorato.

«Sono miei?», domandò Giacinto, un tono di sorpresa nella voce.

«Sono necessari per i tuoi allenamenti. Non ti piacciono?»

Giacinto sollevò lo sguardo, una nota di malinconia gli adombrava le iridi smeraldo. «Durante l'agoghé dovevo condividere tutto con i compagni. Crederesti che un principe non abbia problemi a procurarsi queste cose, invece mio padre non ha mai voluto accontentarmi. Pensa che il mio interesse per i Giochi sia eccessivo, che offuschi quello per le armi».

«Puoi prenderli. Adesso sono tuoi e potrai usarli fino alle prossime Olimpiadi».

«E poi?»

Apollo gli si avvicinò. La luce del sole filtrava tra le fronde, ricamava ombre sul viso di Giacinto. Erano circondati dall'anima della natura, dai frutti di Gea, che forse non l'aveva mai perdonato dopo la morte di Pitone. Lo punse ancora un turbamento senza nome.

Gli dèi pagavano mai i loro errori?

«Vuoi che ti alleni anche dopo i Giochi?»

Giacinto deglutì, il volto contratto. «Non so più cosa voglio».

«Cominciamo», gli ordinò lui. Si liberò della tunica, a coprirgli le parti più intime rimaneva solo un pezzo di stoffa legato sui fianchi con una cinta.

Giacinto fece lo stesso, aprì il vasetto di alabastro. Il profumo dell'olio e degli unguenti si mescolò a quello resinoso del bosco. Apollo ne versò alcune gocce sul palmo e lo spalmò sulle spalle del giovane. Chissà quante volte qualcun altro aveva fatto quel gesto, aveva toccato Giacinto in quel modo. La sua pelle aveva perso il pallore, ormai baciata a lungo dal sole durante gli allenamenti all'aperto. Nei chiari ricamavano qua e là piccole costellazioni. Com'era possibile che il suo corpo perfetto, come quello degli dèi, fosse destinato all'oscurità dell'Ade? A diventare un'ombra senza carne e profumo?

«Girati», disse Apollo in un sussurro.

Giacinto gli ubbidì, il volto arrossato.

«Puoi fare lo stesso con me, se ti va».

«Ho scelta?» Giacinto gli rivolse uno sguardo di fuoco che non si aspettava. La sua docilità era solo apparente, come la calma dell'Etna nelle cui viscere si agitava il fuoco.

L'idea di costringerlo a fare qualcosa lo disgustava. L'ultima cosa che voleva era che lui lo guardasse come aveva fatto Dafne negli ultimi istanti. «Come ti ho detto quando abbiamo iniziato ad allenarci, ti chiedo solo di farmi compagnia».

Giacinto scaldò tra le dita l'unguento. Passò un istante in cui sembrava assorto in una riflessione, senza tuttavia distogliere lo sguardo dal suo viso. Giacinto aveva questo di diverso dagli altri e dalle ninfe: la fierezza di un principe, l'incoscienza di un giovane. E lui ne era attratto.

Mossero entrambi le mani l'uno sul petto dell'altro, spalmarono gli oli e gli unguenti, si accarezzarono le braccia e le spalle, le dita esitanti, i palmi che pian piano si aprivano sulla pelle.

Giacinto si allontanò, proprio quando Apollo arrivò con le dita sulla sua nuca, quando sarebbe bastato così poco per sfiorargli le labbra. Non era la prima volta che Giacinto gli sfuggiva un attimo prima di cedere. Lo vide sorridere.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora