Parte 28 - Un briciolo di felicità

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L'aria salmastra lo liberò dal profumo dolce dell'alloro bruciato e da quello acre dei vapori esalati dal crepaccio del suo tempio a Delfi.

Apollo affondò i piedi nella sabbia molle della riva, battuta dalle onde spumose. Il monte Cinto si ergeva contro il cielo screziato da nuvole rosa, tra la vegetazione spiccavano le sagome delle statue lignee che ritraevano lui, Artemide e Leto.

Delo, il luogo dove per la prima volta aveva respirato l'aria fuori dal ventre di sua madre, lo rilassava, lontano dall'Olimpo e dal resto del mondo.

Nella testa rimanevano le parole confuse della Pizia, le visioni che Apollo non riusciva a definire in un'immagine chiara.

Ali e vento, ripeteva la Pizia con il tono cantilenante.

Questo lo so già, ribatteva lui, una nota di impazienza nella voce.

Non posso aiutarti. Sei tu il dio della profezia, diceva infine la sacerdotessa. Apriva gli occhi lucidi come ossidiana, ottenebrati dai vapori del crepaccio, e ricadeva nella sua trance, in attesa di altre istruzioni, di un richiedente mortale a cui dare i suoi vaticini oscuri.

Il vento era tutto ciò che Apollo vedeva quando chiudeva gli occhi. Le fronde che stormivano, gli anemoni sfogliati dai petali, le onde ricurve e alte, la polvere che si faceva nuvola. Il sibilo che qualche volta sembrava umano e gli faceva spalancare gli occhi. Le visioni confuse erano tornate a tormentarlo. Riemergevano tra quelle più nitide di cui indovinava presto il significato, lo ossessionavano mentre suonava la lira, mentre guidava il carro del sole. Persino mentre si allenava.

Perché il Fato non gli permetteva di afferrane il senso?

Giacinto gli corse incontro. Gli gettò le braccia al collo, come accadeva sempre quando Apollo ritardava i loro appuntamenti.

«Anche oggi mi hai lasciato da solo», si lamentò il giovane, le labbra corrucciate in un broncio infantile.

Apollo gli accarezzò la fossetta in mezzo la mento. Profumava degli unguenti e degli oli che si era spalmato prima di allenarsi. «Parli come se accadesse tutti i giorni».

«Con te non ne posso perdere nessuno. Avevi promesso di farmi compagnia durante la mia vita mortale».

«Non parlare così».

«Perché? Un dio non dovrebbe avere paura della verità. Per te i miei giorni saranno una manciata di granelli sottratti alla tua eternità. La tua vita è una roccia levigata dal mare che diventa liscia senza mai consumarsi».

«La tua lingua, invece, è una lama tagliente. Sono in tempo per detergerti la pelle, se taci un momento». Apollo gli sfiorò le labbra.

Giacinto lo prese per mano, lo guidò fino ad allontanarsi dalla riva. Gli oggetti che Apollo gli aveva regalato tempo prima erano lì. Giacinto gli porse lo strigile, e lui lo passò sulla sua pelle, eliminando la polvere, il sudore e gli oli.

Tra la vegetazione brulla spuntavano massi rocciosi, dipinti dalle dita rosate del tramonto. Giacinto indossò la tunica che gli arrivava alle ginocchia, la pelle appena increspata da brividi.

«Domani starai con me tutto il giorno?», gli domandò il giovane, gli occhi colmi di speranza.

«Domani e per molti altri giorni».

Le iridi smeraldo si adombrarono. In Giacinto rimaneva il conflitto tra il suo ruolo di principe e quello di atleta. Si sentiva in colpa per essersi allontanato dalla sua famiglia e perché sottraeva Apollo ai suoi impegni divini. A lui non importava, aveva tutta l'eternità per guidare carri, suonare con le Muse e comunicare i suoi vaticini alla Pizia.

I giorni con Giacinto scorrevano sempre troppo veloci. L'estate scivolava via, il calore del sole si faceva meno intenso sulla pelle e quando scendeva la notte avevano bisogno di scaldarsi al focolare che sua madre Leto teneva acceso nella sua casa.

Anche quella sera raggiunsero la modesta abitazione, dove Leto viveva tranquilla, dopo le peripezie della gravidanza e delle insidie che aveva affrontato per colpa di Era. Persino sull'Olimpo la sposa di Zeus non tratteneva il disappunto quando incontrava Apollo, la testimonianza più splendente dei tradimenti di suo marito. Anche per questo lui aveva accumulato epiteti e poteri, affinché lei si ricordasse che era uno degli dèi più potenti, che tutto quello che aveva fatto per tormentare Leto non era servito a niente.

La casa sorgeva sul monte Cinto, nei pressi del lago dove Leto aveva partorito. Svettava verso il cielo la palma al cui tronco si era aggrappata durante le doglie. In estate le sue fronde le offrivano ancora ombra, in inverno la riparavano dai venti.

Sull'uscio già vennero investiti dal calore del fuoco e dal profumo di erbe bruciate che Leto usava per i suoi riti religiosi. La fragranza di alloro e ginepro si avvertivano da lontano. Figlia dei Titani, aveva conservato per gli dèi olimpici la devozione rispettosa, la consapevolezza di far parte di un nuovo ordine del cosmo che non andava scardinato.

Le coppe colme di vino baluginavano alla luce delle fiamme del focolare. Il legno crepitava e lo scoppiettio si mischiava allo sciabordio lontano delle onde. Nella stanza aleggiava l'aria salmastra, il profumo della focaccia di maza e miele, un polpo arrostito che Giacinto aveva pescato.

Qualche volta lo facevano insieme, per rafforzare la muscolatura e i riflessi, con il favore di Poseidone. Giacinto ci teneva a procacciarsi almeno il pescato da solo, dato che Leto insisteva per ospitarli e cucinare.

Apollo la vide intenta a mescere il vino, avvolta dal chitone color cielo, un unico bracciale dorato che le scivolava fino all'incavo del gomito.

«Potresti avere delle ancelle», le disse.

«Sto bene così». Leto indicò la tavola e loro presero posto.

«Grazie per tutto questo», disse Giacinto. Arrossiva spesso quando parlava con sua madre.

Leto sedette tra loro anche se non avrebbe potuto mangiare. Gli dèi non mangiavano che ambrosia e non bevevano che nettare. Il cibo degli umani non nutriva l'icore che scorreva nelle loro vene né le carni immortali e lisce. Poteva essere persino velenoso.

Ogni sera da diversi giorni rimanevano a tavola, mentre il focolare si consumava. Leto raccontava dei Titani, dei lontani primi anni della sua vita. Apollo sospettava che Giacinto la ascoltasse per gentilezza, che simulasse interesse mentre fremeva per uscire di nuovo, per darsi appuntamento sotto le stelle, prima di infilarsi a letto con lui. A quel punto Leto dormiva da un pezzo.

Anche quella sera le parole di sua madre si accavallarono una dopo l'altra, più musicali e affascinanti dei canti degli aedi. Lui la pregava silenziosamente di risparmiare le storie più cruente.

Poi Apollo prendeva la lira di avorio, le gemme fulgenti alla luce delle fiamme. Un gabbiano lontano garriva in risposta alla prima nota, poi tutto si faceva silenzio e la melodia invadeva la stanza, mescolandosi allo sciabordio delle onde. Giacinto lo guardava, gli occhi colmi di ammirazione, talvolta le palpebre si chiudevano mentre la musica lo trasportava in un luogo lontano. Era uno dei pochi momenti in cui Apollo dimenticava l'inquietudine di una profezia di cui non vedeva i contorni, strisciante come un serpente, insidiosa come un vento cattivo.

Pizzicò le corde quando sua madre tacque. Suonò fino a quando Leto non disse che per lei era abbastanza e che li lasciava da soli. Tra loro madre e figlio passò uno sguardo complice.

Stai attento.

Mi importa solo che tu sia felice.

Ma la felicità, figlio mio, è fragile, che sia fatta per i mortali o per gli dèi.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora