Parte 10 - Il tempio della profezia

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La notte era scura, la luna assente. Poche stelle baluginavano nel cielo, nascoste dalle nubi dense e bluastre. Il mormorio della fonte Castalia, lungo la strada che portava al tempio, faceva compagnia ad Apollo.

I pellegrini dovevano bagnarsi in quella fonte per purificarsi prima di mettere piede nel santuario, ma lui non ne aveva bisogno. Chi era più puro di un dio? Nelle sue orecchie rumoreggiava il torrente, gli ululati degli animali e degli uccelli notturni che si nascondevano nella lussureggiante vegetazione del Parnaso.

Gli parve di sentire il canto delle Muse che si annidavano nelle cavità segrete e misteriose della montagna.

Accelerò il passo. Un'inquietudine insolita lo invadeva da quella mattina, da quando Giacinto gli aveva piantato addosso gli occhi fiammeggianti di rimprovero e sdegno.

Dafne non aveva avuto il tempo di raccontargli della sua famiglia, perché lui non gliene aveva dato. Mentre la rincorreva non si era chiesto chi fossero i suoi fratelli o i suoi genitori.

Giunse ai piedi del tempio. Le fiamme rossastre delle torce si agitavano tra le scanalature delle colonne doriche, sul marmo e la pietra. Apollo salì gli scalini che conducevano al portico. Sei colonne svettavano fino al frontone sormontato dalle statue degli dèi.

Le immagini del passato vibravano nell'aria e nel petto, tra le gole profonde delle montagne e le profondità del mare. Lo tormentava il ricordo di Dafne, il disprezzo sul suo viso, quando aveva incrociato il suo sguardo, uguale a quello di suo fratello Giacinto; i capelli ramati che ondeggiavano al vento, nella corsa disperata nel bosco, gli occhi di onice sbarrati, l'invocazione a Gea e al fiume Penèo, il corpo che si irrigidiva proprio quando lui l'afferrava. Risentiva sotto le dita la ruvidezza delle carni che da morbide si trasformavano in dura corteccia, i germogli teneri delle foglie di alloro che le spuntavano dalle unghie candide, i capelli che si facevano fronde.

Quel giorno Eros aveva voluto punirlo. Apollo lo aveva preso in giro, l'animo colmo di boria per la vittoria ottenuta su Pitone, per il possesso dell'oracolo di Delfi.

La risposta di Eros era partita dal suo arco: una freccia d'oro gli aveva trapassato i muscoli fino a piantarsi nelle sue ossa, e a raggiungere il midollo. Il calore di un amore invincibile lo aveva subito invaso. Ma l'amore ricambiato non è una punizione, per questo Eros aveva scoccato una seconda freccia di piombo, capace di suscitare ripugnanza e disprezzo. Aveva mirato a Dafne, che aveva scelto da tempo la vita riservata delle ninfe dei boschi.

Un amore impossibile, animato dal desiderio e conclusosi con una metamorfosi eterna.

Dafne era stata un'altra vittima dei capricci degli dèi, per sempre trasformata nell'alloro che adesso ornava il capo dei vincitori e il suo, naturalmente. Gli dèi sarebbero mai stati puniti per il peccato di hybris?

Un alito di vento lo riscosse, fresco, nonostante la notte estiva. Non ebbe voglia di domandarsi se fosse Zefiro o Borea. Un peso gli opprimeva il petto e da qualsiasi cosa dipendesse, aveva bisogno di liberarsi da quella morsa.

Iscritti nel tempio due motti accoglievano i visitatori: μηδὲν ἄγαν, nulla di troppo e γνῶθι σαυτόν, conosci te stesso.

Due consigli che lui stesso faceva fatica a seguire. I suoi passi sul pavimento di pietra riecheggiarono all'interno del tempio, l'eco rimbalzante tra le colonne e le statue. Una era d'oro e riproduceva le sue fattezze. Lo scultore aveva fatto del suo meglio, ma il fulgore della bellezza divina non poteva essere imitata da mano mortale.

Oltrepassò altre statue, tripodi di bronzo, l'altare circolare su cui erano scolpite figure di marmo. Nelle narici si insinuava il profumo di incenso e un vaga nota acre di bruciato, forse un sacrificio che qualcuno gli aveva dedicato quella mattina.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora