Parte 7 - L'apparizione di un dio

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L'aria crepitava di voci dagli accenti diversi, di gridolini estatici e grugniti di insoddisfazione.

Giacinto si ritrovò schiacciato da due uomini che si facevano strada tra la folla per guadagnarsi una postazione migliore.

«Piano», protestò.

Uno dei due si girò in malo modo, ma appena gli occhi si posarono sul suo volto, le labbra si schiusero in un'esclamazione sorpresa e le parole rudi che di sicuro gli danzavano sulla lingua svanirono.

Giacinto abbassò lo sguardo. Era abituato chi lo fissava a causa della sua bellezza, agli sguardi invadenti che indugiavo sul chitone quasi come se potessero strapparglielo di dosso se si fossero soffermati ancora a fissarlo. Fece un passo indietro. Altri uomini avanzarono e riuscì a passare inosservato. Al suo fianco Polibea attirava un altro tipo di sguardi. Il suo corpo florido, sodo e atletico meravigliava i Greci che venivano da Atene, perché per loro le donne erano destinate rimanere chiuse in casa, a godere raramente della luce del sole che dora la pelle, e a concentrarsi, se proprio volevano far qualcosa, sul telaio.

Per loro era strano che le ragazze spartane si allenassero fin da bambine, gli aveva spiegato Polibea. Anche se, aveva aggiunto sconsolata, tutto questo allenamento era finalizzato a mettere al mondo dei figli robusti e sani. Le donne a Sparta potevano possedere terre, allenarsi per un periodo insieme ai ragazzi, persino divorziare, ma dovevano dare figli allo Stato.

Anche sua sorella era incastrata in un ruolo che forse non voleva. La vide rianimarsi al suo fianco, mentre gli aurighi sui carri si preparavano a partire. Negli occhi neri le brillava un luccichio eccitato, un fremito, forse avrebbe voluto guidare i cavalli. Nella loro passione per le attività ginniche erano uguali.

I cavalli, quattro per ogni carro, scalciavano sulla pista, incastonata in una piana, tra il pendio verdeggiante del Parnaso e il golfo smaltato di azzurro del Golfo di Corinto. Respirando a pieni polmoni Giacinto poteva cogliere, tra gli odori acri degli altri spettatori, il profumo salmastro del mare, quello resinoso degli abeti di Cefalonia.

Si passò una mano dietro il collo. La giornata calda d'agosto e l'eccitazione di poter assistere ai Giochi gli diedero una vertigine.

Gli aurighi impugnavano le briglie di cuoio le sbattevano con energia sul dorso degli animali per spronarli alla corsa. Gli zoccoli dei cavalli sollevavano nubi di polvere e terra, mentre gli occhi puntavano al traguardo, segnato da un tronco di quercia e due pietre lisce e candide. Le criniere d'ebano o avorio ondeggiavano e così facevano le vesti degli aurighi, che sembrava potessero essere sbalzati via da un momento all'altro.

Quanto gli sarebbe piaciuto essere su quel carro, sentire il vento che gli accarezzava il volto e gli scompigliava i riccioli color miele, chiudere gli occhi quanto più prendeva velocità e riaprirli solo dopo, una volta arrivato al traguardo prima degli altri.

Un grande clamore si levò tra la folla. Giacinto si era perso in un sogno e non si era reso conto che tutto era già finito in una manciata di minuti. Gli aurighi vincitori sfilavano per raccogliere applausi e premi: giovenche, tripodi di bronzo, krater d'argento.

Seguì gli altri alla prossima gara, lontana dalla polvere della pista.

Il pugilato lo aveva praticato spesso durante l'addestramento, ma nessun compagno gli sembrava avere lo stesso corpo dei professionisti che adesso si fronteggiavano sotto il sole caldo. I corpi dai muscoli delineati rilucevano cosparsi d'olio, le mani avvolte da fascette di cuoio che lasciavano libere le dita si preparavano a colpire.

«Siete qui», lo riscosse una voce ben nota.

Cinorta gli arpionò una spalla, lo guardava con il volto squadrato corrucciato.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora