Parte 13 - Il debito di Giacinto

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«La seconda notizia riguarda te, Giacinto», gli disse suo padre, il brodo che gli scivolava sul mento. Si pulì con il dorso della mano. «C'è qualcuno che ti aspetta qui fuori».

Lui deglutì. «Non capsico».

«Voglio che tu lo raggiunga subito».

Giacinto posò il fico sul tavolo. «Credevo che dovessimo parlare del mio futuro, di politica o del mio posto nell'esercito».

«Difendere Sparta non è il tuo compito», intervenne Cinorta.

Argalo batté un pugno sul tavolo, ancora pallido, le labbra viola serrate. «Lascia in pace almeno lui. Non sei il re, per quanto ti piacerebbe esserlo, per quanto ti piacerebbe scavalcarmi».

«Ora basta», tuonò il re. Non intendo ascoltare questi discorsi alla mia tavola». Si alzò, la sua figura imponente fu capace di ammutolirli. La tunica bordata di porpora oscillò al suo movimento. «Dopo la brillante prova che hai dato nella crypteia, credevo che avresti proseguito l'addestramento militare, ma oggi ho ricevuto la visita di un dio».

Giacinto si sentì mancare. Si aggrappò al bordo del tavolo. Apollo lo aveva tradito.

«Il dio Apollo, colui che guida il carro del sole e a cui dobbiamo musica e pestilenze, vuole che ti alleni con lui», continuò suo padre. Negli occhi baluginò un rimprovero. Apollo era pur sempre il dio che lo aveva privato di Dafne, in un modo o nell'altro. Anche se era troppo prudente per lasciarsi andare a una critica nei suoi confronti, quello che pensava traspariva dal suo volto rigido, dalla fronte corrucciata, dalle narici dilatate del naso che una battaglia aveva ingobbito.

«Non l'ho chiesto io», protestò lui.

Cinorta lo guardò di sbieco. «Non hai avuto bisogno di farlo. Dopo il modo imprudente con cui l'hai trattato ai Giochi, era chiaro che ti avrebbe punito in qualche modo anche se...»

«Cosa?», sbottò lui.

«Non so fino a che punto possa essere una punizione per te sottrarti alle armi».

Giacinto si alzò di scatto. «Con il tuo permesso, padre».

Il re lo congedò con un gesto della mano. «Non abbiamo altra scelta».

Nel corridoio che dava sui giardini fu di nuovo investito dalla luce. Strinse gli occhi per abituarcisi. Il cuore gli galoppava nel petto, forse le Erinni provavano la stessa sensazione, la stessa inquieta impossibilità di stare ferme, lo stesso bisogno di sfogare l'energia da cui erano scosse e di cui si volevano liberare. Apollo non aveva rivelato a suo padre come era morto lo schiavo ilota, in cambio voleva riscuotere il suo debito: sottrarlo al palazzo, farlo diventare un pupazzo nelle sue mani.

Una mano gli arpionò la spalla, proprio mentre svoltava verso un altro corridoio da cui si aveva la visuale sia dei giardini che dei marmi dei templi.

Polibea lo costrinse a voltarsi, il braccio forte come quello di un uomo, frutto di parte dell'allenamento che da bambini avevano fatto in comune.

«Hai saputo? Avrei voluto dirtelo io per prima, ma nostro padre me l'ha vietato».

Giacinto ansimò. Non le aveva raccontato della crypteia, ma per lei e per Cinorta era plausibile che Apollo volesse prendersi gioco di lui dopo l'incidente ai Giochi Pitici.

Sua sorella rivolse lo sguardo verso il giardino. In lontananza si scorgevano le vigne ricche di grappoli sanguigni, gli alberi di mele e i fichi dalle grandi foglie ondeggianti. Si udiva il mormorio della fonte a cui gli abitanti del palazzo attingevano. Davanti a una rampicante che grondava di anemoni viola, Apollo pizzicava le corde della sua lira d'avorio con fare annoiato. Per lui era tutto un gioco, come per tutti gli dèi.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora