Parte 22 - Sfuggire al Vento

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Lo squittio di una civetta vibrò nella stanza. Giacinto si allontanò dalla finestra che dava sul cortile del palazzo. Quella notte il vento faceva stormire le fronde degli alberi, portava l'odore di resina dei pini e dei fiori che avevano resistito alla calura estiva.

Disteso sul suo letto, aspettava che i rumori si acquietassero, che i servi si ritirassero e che i suoi fratelli tornassero nelle loro stanze. Sugli affreschi tremolavano le fiamme delle torce, che allungavano le ombre dei mobili e gli davano un senso di inquietudine che gli stringeva lo stomaco.

Un altro stridio arrivò attutito, da lontano, forse dagli alberi che costeggiavano i templi della città. La civetta era sacra ad Atena, e lui sperò che fosse un segno propizio.

Quando i rumori del palazzo cessarono si alzò. Per tutto il giorno era rimasto chiuso nella sua stanza, eludendo le domande di suo padre e le premure di sua madre. All'inizio non volevano che frequentasse Apollo, ma adesso erano solo preoccupati che potesse indispettirlo e causare una pioggia delle sue frecce sulla città.

Negli ultimi giorni era scappato dalla luce del sole, dagli occhi del dio che potevano vederlo mentre guidava il carro di Elio. Scosse la testa. Non faceva che illudersi: Apollo avrebbe potuto vederlo in qualsiasi momento, se solo lo avesse voluto. Non era forse piombato a palazzo più volte all'inizio della loro conoscenza?

La verità era che non gli interessava chiarirsi con lui.

Ti dai troppa importanza.

Le sue parole tornarono a tormentarlo.

Apollo si era annoiato in fretta. Tra gli invitati ai banchetti circolava la voce che fosse impegnato a corteggiare la principessa Acacallide, che già le avesse donato un palazzo. Si morse l'interno della guancia per non cedere al pianto.

C'era qualcosa di importante che doveva fare e neanche Apollo con il suo splendore e la sua prepotenza glielo avrebbe impedito.

Si lasciò alle spalle la sua stanza, percorse i corridoi di pietra, i piedi lievi sul pavimento. Aspettò che gli occhi si abituassero al buio di una notte senza luna. I muscoli delle gambe si contrassero in crampi dolorosi. Quella mattina si era allenato a lungo nella sua stanza. Flessioni, pugni tirati ai sacchi, corsa sul posto. Era solo per questo che sentiva dolore, si mentì.

Non c'entravano nulla la delusione o che fosse il primo allenamento senza Apollo. Mille volte avrebbe preferito essere colpito dalle frecce di piombo di Eros che non struggersi per quel sentimento. Per la prima volta pensò che Dafne fosse stata fortunata.

Accelerò il passo. Conosceva a memoria il palazzo, il focolare, gli affreschi, i tripodi, gli arredi. Quando era tornato dall'agoghè una delle prime cose che aveva fatto era stata ripercorrerlo, appropriarsene di nuovo, ammirare l'arte e le pietre che ospitavano la sua famiglia, diverse dalla struttura severa e plumbea delle caserme.

Un alito di vento gonfiò la sua tunica. Lo riconobbe subito. Poteva farlo anche solo dal suono che produceva sfiorando e sferzando le pietre. Tentò di lasciarselo alle spalle, ma sulla scalinata che conduceva al piano terra un lampo di luce lo costrinse a fermarsi. Non era come la luce di Apollo, splendente e dorata. Era un lampo d'arancio che subito si imbruniva.

Zefiro gli comparve davanti, le ali spiegate e macchiate dai colori del tramonto, le labbra socchiuse in un gesto che gli era abituale. Imponente, occupava il passaggio e lo fissava con i suoi occhi di un celeste smorto.

Gli era apparso poche volte. Di solito preferiva sferzarlo con le sue carezze invadenti, alito di vento che si insinuava sotto la tunica. Tra gli alberi del bosco riecheggiava il suo sibilo, le parole che prendevano forma ribalzando sulle superfici ruvide e nodose delle cortecce o tra le foglie e i fili lisci dell'erba.

Sei bello. Ti voglio. Lascia che ti avvolga tra le mie ali.

Giacinto trattenne il fiato. L'altro lo guardava con un lampo di ironia negli occhi, il volto squadrato, come se fosse limato dalle stesse correnti di vento che gli uscivano dalla bocca.

«Oggi ti sei allenato da solo nella tua stanza. Ti ho visto, anche se hai cercato di nasconderti», disse Zefiro.

Lui strinse i pugni. «Non ti riguarda».

Zefiro gli si avvicinò, sapeva di mare, dell'umidità che si scatena tra la terra molle quando è privata del calore del sole. «La differenza tra me e il dio della luce è che io vedo tutto. Per evitare lui ti basta chiudere gli scuri, rifugiarti in una grotta. Io, invece, posso insinuarmi ovunque. Tu lo sai bene». Sollevò una mano e gli sfiorò il volto.

Giacinto rabbrividì al contatto con le sue dita ossute e fredde. Fece un passo indietro. «Sei un vento come gli altri».

«Non è vero, gli altri venti non ti vogliono e non ti hanno mai toccato come faccio io». Le sue ali si mossero in un battito nervoso.

Lo spazio sulle scale parve restringersi.

«È finita presto la tua storia con Apollo». Una risata sottile gli sfuggì dalle labbra.

«Non sono affari tuoi. Lasciami passare adesso».

Le ali di Zefiro baluginarono di una sfumatura rossastra, che si riverberò sul suo volto e sulle scale di pietra. Quando Giacinto cercò di risalire le scale si accorse che le ali del dio lo avevano circondato. Soffocato da piume morbide, quasi gli mancava il fiato.

«Ad Apollo non piacerà quando glielo racconterò», provò a minacciarlo.

«Apollo ti ha già dimenticato. Se gli interessassi, sarebbe già venuto qui da un pezzo. Perché credi che non mi sia avvicinato negli ultimi giorni? Solo perché lui era con te continuamente, ma adesso... dov'è? Io non lo vedo». Un ghigno gli increspò le labbra. «Adesso sarà a Cnosso, impegnato con quella principessa, Acacallide. Ne ha una in ogni regno. È bello, questo glielo devo riconoscere, ma io saprei amarti meglio».

Giacinto si morse le labbra. A un dio che dice la verità non si poteva rispondere se non con il silenzio. Apollo lo aveva abbandonato, forse sarebbe stato persino in grado di ridurlo come Tamiri. La cosa migliore che avrebbe potuto fare sarebbe stata donarsi a Zefiro, accettare la sua protezione.

L'altro gli sfiorò la schiena con le sue ali, gli fece sentire il calore del suo petto avvolto dalla tunica color arancio.

«Se decidi di essere mio, ti porterò con me a Ponente, dove tramonta il sole, lontano dalla luce accecante di Apollo. Il buio qualche volta può dare la pace che la luce ti strappa».

Giacinto fece scendere la mano lungo il fianco. Sì, sarebbe stato semplice donarsi a Zefiro, farsi amare e poi buttare da lui – perché alle promesse di amore eterno da parte degli dèi non credeva più – ma l'istinto lo fermava. Per lui Apollo non era stato un gioco, qualcosa che potesse essere dimenticato o sostituito. Apollo era l'unico essere che aveva risvegliato il suo amore, che gli aveva fatto capire che non c'era solo il desiderio verso un corpo nel cuore degli uomini. Era anche il primo ad avergli inferto una delusione bruciante.

Sentì il soffio di vento sul suo viso, le labbra fresche di Zefiro posarsi all'angolo della bocca. Scostò la testa. «No».

Negli occhi del dio lampeggiò un dardo rossastro, come le ultime lame di luce del sole prima di scivolare a occidente. Affondò le mani nei suoi fianchi e avvolse le ali attorno alla sua vita. «Potrei portarti via di qui in un solo attimo».

Giacinto estrasse il pugnale che portava legato alla vita. La lama brillò nella notte, colpita dagli stessi riflessi di luce che Zefiro emanava.

Il dio serrò le labbra, ma poi esplose in una risata. «Non servono con gli dèi le armi degli spartani».

Una fiaccola tremò nel cortile. «Giacinto», chiamò Polibea.

«Non è finita qui», sibilò Zefiro, il volto ancora contratto. Volò via in un soffio silenzioso.

Il corridoio divenne di nuovo buio. Giacinto ripose il pugnale, la mano che gli tremava. Aveva sfidato un dio, ma – che i numi lo perdonassero – era davvero stufo di loro, dei sotterfugi, delle prepotenze, delle false promesse.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora