Parte 11 - La prova di Giacinto

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Un crepitio tra le foglie del sottobosco, l'alito di vento che scuoteva le fronde. Gli abeti di Cefalonia e i cipressi non gli erano mai apparsi così imponenti e neri, come mostri marini che si ergevano tra i flutti scuri di una tempesta.

Giacinto trattenne il fiato. Contò un due tre, come faceva durante i giochi con sua sorella, per strapparle la fune o le biglie, per correre più veloce di lei.

Si appiattì contro il tronco di un abete, ne sentì la dura corteccia contro la schiena, attraverso la tunica sottile che il maestro gli aveva dato quando la prova della crypteia era ufficialmente iniziata.

Il maestro gli aveva consegnato un pugnale, una focaccia di maza già indurita e un pezzo di formaggio. Pochi viveri che gli sarebbero dovuti bastare durante quei giorni trascorsi nella foresta, alla ricerca di un ilota da uccidere.

Giacinto deglutì. Non si era mai accorto che il Taigeto fosse tanto pieno di vita, tanto rumoroso. Poco lontano aveva trovato una sorgente che era stata la sua salvezza. Sentiva la bocca secca, il senso di ingiustizia per quello che avrebbe dovuto fare.

Perché mi è così difficile?

Prima di lui lo avevano fatto i suoi fratelli, e prima ancora sua padre. Lo avevano fatto tutti gli uomini che si erano guadagnati il diritto di essere spartiati, cittadini a pieno titolo, soldati eccellenti che forse tra loro si amavano, ma uccidevano senza pietà gli altri dopo aver invocato Eros prima delle battaglie.

Il crepitio cessò. Lo spicchio sottile di luna crescente emanava un bagliore madreperlaceo, illuminò una lepre che era spuntata tra i cespugli con gli occhi sbarrati per poi scomparire nel buio. Giacinto si sfiorò una caviglia, ferita dai rovi nascosti tra l'erba più fresca e tenera. Non aveva paura della fatica. Quando aveva capito che la crypteia prevedeva giorni trascorsi nella foresta con pochi viveri a disposizione non aveva battuto ciglio. La sforzo fisico finalizzato al raggiungimento di un risultato lo esaltava. Aveva sopportato l'agoghé, le privazioni, la vita forzata in comune, i tentativi dei ragazzi più grandi di prenderlo come compagno, perché amava gli esercizi ginnici che facevano parte della formazione. Il lancio del disco, del giavellotto, la corsa, il pugilato. I muscoli e i tendini che si modellavano, il sangue che scorreva veloce e scaldava la pelle. Non si era mai sentito tanto vivo.

Ciò che lo preoccupava, invece, era dover uccidere. Trovare un ilota, conficcargli il pugnale nel petto, ascoltare il rantolo del suo ultimo respiro. Gli Iloti non erano altro che schiavi, carne da macello con cui allenarsi in attesa della guerra vera. Persone senza diritti.

Giacinto era stato cresciuto con quell'idea fin da quando era bambino. Che gli Iloti non fossero nulla era un dato di fatto, così come era un dato di fatto che gli dèi fossero creature immortali che non conoscevano la sofferenza. Eppure, lui non voleva uccidere. Non ancora, almeno, non se non era necessario. All'idea di farlo gli saliva un conato di nausea dallo stomaco.

Pensare di dover straziare un corpo perfetto, una macchina di muscoli, tendini, ossa e vene, che lavorando insieme permettevano un gesto atletico, lo inorridiva.

Lasciò andare un sospiro pesante. Il suo fiato si condensò in una nuvola bianca, perché sulle alte vette del Taigeto l'estate di notte era simile all'inverno. Contro la sua coscia premeva l'elsa di bronzo del suo pugnale. Sulla sua testa si agitavano le fronde dei pini neri e degli abeti.

Se avesse trovato un ilota, quello sarebbe scappato. Avrebbe dovuto rincorrerlo tra i rovi e le rocce, mentre lo schiavo fuggiva.

Proprio come Dafne.

Il pensiero gli squarciò il petto. Da quando aveva visto Apollo ai Giochi aveva tentato di strapparselo dalla mente: la sua aria superba, la luce della sua pelle, le iridi celesti sfavillanti. Il fatto che fosse così bello, più bello di Tamiri, più divino del vento.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora