Parte 31 - αι

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Apollo si rassegnò a seguirlo.

Sul monte Taigeto brulicava la natura. Risuonavano le ultime cicale della stagione, pronte a morire in un soffio ai primi freddi, sibilavano le fronde dei cipressi e degli ulivi argentei.

Camminarono tra gli alberi, lontano dagli altri templi che si trovavano sull'acropoli, fino a raggiungere il bosco da cui si vedeva la città. I tetti delle case e dei santuari baluginavano al sole radente di metà mattina, il nastro azzurro del fiume Eurota tagliava la città, sinuoso come un serpente.

I pini e gli abeti emanavano l'odore resinoso che conoscevano bene.

Giacinto gli accarezzò una spalla, fino a sollevare la tracolla della faretra. «Toglila».

«Perché?», domandò lui con un tono capriccioso. «Non voglio fermarmi a lungo». Lo sguardo si spostò sul giavellotto e su un disco protetto dalle fronde di un abete. «Hai proprio pensato a tutto».

«Voglio allenarmi, per favore».

Apollo posò la faretra a terra, le punte delle frecce dorate si nascosero tra l'erba incolta. Non gli era mai capitato di sentirsi tanto disarmato senza le sue fecce, anche se era un dio e il suo potere andava ben oltre gli strumenti che usava per esercitarlo.

Giacinto si spogliò e lui fece lo stesso. Si unsero con gli oli e gli unguenti che il giovane aveva fatto portare nel bosco da un servo. I loro corpi brillavano al sole.

Giacinto gli porse il disco, i capelli scompigliati al soffio del vento caldo che veniva da sud.

Ad Apollo parve di sentire il bubolare di un gufo, ma doveva essersi sbagliato. Il giorno splendeva, la luce dominava le tenebre. Non era il momento del gufo, quello. Sotto le dita sentì i decori intarsiati nel disco. Lui stesso lo aveva fatto forgiare da Efesto e ne conosceva ogni particolare.

«Che aspetti?», lo incalzò l'altro, gli occhi limpidi, colmi di una felicità che avrebbe dovuto sentire lui stesso nel petto e che invece era ottenebrata dall'impazienza di tornare a Delo.

Si piegò sulle ginocchia e con una torsione del busto prese lo slancio per lanciare l'oggetto. Con gli occhi ne seguì la traiettoria, il modo in cui fendeva l'aria sopra i cespugli del sottobosco, il modo in cui planava sull'erba, incastrandosi tra i fili lunghi e i fiori delle erbe aromatiche.

Giacinto corse per recuperalo, i muscoli dei polpacci che si flettevano, i talloni agili che si sollevano da terra, le braccia che seguivano il movimento del tronco per avere più slancio nella corsa. Era migliorato da quando avevano cominciato ad allenarsi all'inizio dell'estate. Sarebbe stato un atleta meraviglioso, acclamato da tutti. Suo padre si sarebbe dimenticato che Giacinto non voleva impugnare le armi, e se non lo avesse fatto, si sarebbe incaricato lui stesso di convincerlo a onorare Giacinto come meritava.

Il giovane si piegò e raccolse il disco. Lo lanciò nella sua direzione con un gesto atletico sinuoso, che esprimeva grazia e potenza.

Apollo lo prese al volo, gli bastò un lieve salto.

«Non vale», protestò Giacinto quando gli si avvicinò di nuovo. «Sei più alto e hai le braccia più lunghe delle mie. Hai dei riflessi che forse non avrò mai».

«Sono un dio. Forse anche tu un giorno...»

Gli occhi di Giacinto si adombrarono, come sempre quando Apollo lasciava che le parole gli rotolassero via dalle labbra, esprimendo sogni e progetti che per Giacinto erano impossibili da realizzare. La differenza tra loro era che Apollo poteva dire e fare quasi tutto quello che voleva. Giacinto, invece, doveva controllare le parole e le azioni. Non doveva mai dimenticarsi di essere un mortale, che un fiume colmo di eternità e mistero divideva le loro vite.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora