Parte 12 - Una notizia inattesa

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Giacinto affrettò il passo. La luce estiva inondava il corridoio e prepotente si insinuava tra le colonne di porfido, nascondendosi appena dietro di esse. Mentre camminava veloce le lame di luce gli ferivano gli occhi, ma non osava fermarsi.

Suo padre lo aveva convocato nella sala del banchetto. Un servo aveva raggiunto la sua stanza e gli aveva detto esplicitamente che il re di Sparta non ammetteva un rifiuto. Lui, invece, dal giorno della crypteia, si sarebbe volentieri nascosto, lontano dagli sguardi di orgoglio misto a dubbio di suo padre e dei suoi fratelli. Forse nessuno di loro aveva davvero creduto nella sua capacità di superare la prova.

Giacinto è buono solo a perdere tempo dietro le corse, dovevano aver pensato.

Quando il maestro aveva visto il cadavere e poi aveva descritto a suo padre il modo preciso con cui gli era stata tagliata la gola, suo padre aveva sgranato gli occhi. La sorpresa era stata ben presto dissimulata, come si conveniva a un sovrano, abile nelle trattative politiche.

E adesso, cosa voleva? Perché lo aveva chiamato in fretta, quando lui voleva solo sottrarsi alla sua vista?

Davanti alla sala deglutì. Si era fidato della parola di Apollo, ma in fondo il dio poteva averlo incastrato per godersi meglio la sua vendetta. Proprio il dio che lo aveva guarito, che gli aveva concesso un assaggio del suo potere, adesso lo condannava al biasimo di suo padre.

Giacinto non aveva dubbi che la punizione di Amicla sarebbe stata terribile. Forse lo avrebbe persino gettato in una rupe del Taigeto.

I suoi passi riecheggiarono sul pavimento di pietra. Nella sala venne accolto dall'ombra fresca e ristoratrice, dalla musica lieve di una lira.

Gli affreschi di figure nere e rossastre erano nascosti dalla penombra. Una lama di luce sfavillava alle spalle del re. Gli ricordò l'aurea divina di Apollo.

No, Apollo, no, si corresse. Nessuno era luminoso quanto lui.

«Eccomi, padre», disse.

Cinorta, seduto al suo fianco, piegò le labbra sottili in un ghigno.

Sono stato scoperto.

«Vieni, figlio mio. Sei un giovane forte e sano, la prova per quanto stancante non può averti prosciugato tante energie da toglierti l'appetito».

Giacinto gli si sedette di fronte. Uno schiavo si affrettò a prelevare il vino dal krater e a servirglielo. Lui si bagnò appena le labbra.

Accanto al re, oltre a Cinorta, sedeva Argalo, l'espressione impassibile, come le statue dei templi.

Giacinto giocherellò con un fico, lo sbucciò della pelle tenera fino a rivelare la polpa bianca e succosa.

«Ti ho fatto venire perché devo darti due notizie», disse suo padre. L'espressione degli occhi neri si era indurita. Il capo fu scosso da un fremito lieve e la luce rivelò strie bianche tra i suoi capelli.

«Di cosa si tratta?», domandò lui. Si era imposto di usare un tono di voce controllato, ma non era affatto sicuro di esserci riuscito.

Il re sollevò la coppa dorata. «Rallegriamoci, perché gli dèi hanno concesso un figlio a Cinorta. Sua moglie è incinta già di qualche mese».

Cinorta si lasciò sfuggire una risata, che riecheggiò tra le pareti affrescate. «Questo regno ha di sicuro un erede adesso».

Suo padre lo fulminò con lo sguardo. Non gli piaceva la superbia.

Argalo strinse i pugni, il volto pallido come la luna. Era lui il primogenito, era lui che avrebbe dovuto dare per primo un erede al regno. Invece sua moglie non riusciva a dargliene uno né vivo né morto. Nella sala calò il silenzio, mentre l'eco della risata di Cinorta si spegneva.

Giacinto ricordò gli occhi rossi di Timea. Da mesi era l'ombra della ragazza sorridente e piena di speranze che avevano accolto nel regno. Già gracile, così diversa dalle spartane con le gambe tornite e il petto florido, si era sentita presto fuori luogo, un fiore raro che il resto della flora non conosceva e che avrebbe finito per soffocare. Non era riuscita a dare un figlio ad Argalo. Come gli aveva detto Polibea, le sue gravidanze erano finite nel sangue e nelle lacrime. La ossessionava dall'ultimo aborto, l'idea che qualcuno le avvelenasse il cibo per indebolirla, e la paura che, se fosse riuscita a partorire, suo figlio non sarebbe stato all'altezza degli anziani e gracile come la madre sarebbe stato gettato da una rupe o abbandonato nel Taigeto, le teneri carni divorate dalle fauci dei lupi.

I suoi pianti qualche volta squarciavano il silenzio del grande palazzo. Quando gli arrivavano alle orecchie, Giacinto rimpiangeva le notti lontano da casa, durante l'addestramento dell'agoghè.

Auge, che era la sposa di Cinorta, invece, gli appariva sicura. Anche se era più giovane di Argalo e di sua moglie, sembrava più grande. Polibea le aveva detto che suo padre l'aveva ceduta un anno prima a Cinorta con una ricca dote e l'assicurazione che non avrebbe mai dato problemi. Era robusta, le guance perennemente arrossate, i capelli folti e dorati che le sfuggivano dal velo e dai fermagli. Silenziosa. Eppure gli sguardi più penetranti gli lanciava proprio quando aveva il capo chino in un atto di sottomissione solo apparente.

Suo padre si portò un pezzo di carne di maiale alle labbra. Le rughe che gli increspavano la fronte rivelavano la preoccupazione che cercava di dissimulare. Gli spartani vivevano di guerra e per la guerra, ma se fosse stata fratricida, in uno stesso palazzo, ne sarebbero morti.

Lo sguardo scuro dell'uomo non accennò a rischiararsi, si piantò su di lui e si acese di un lampo di collera.

Giacinto represse l'istinto di alzarsi e scappare. Qualcosa gli diceva che la seconda notizia che doveva comunicargli suo padre lo avrebbe sconvolto anche più della prima. «Di che si tratta, padre?» trovò il coraggio di domandare.

Nella sala cadde un silenzio pesante.

 



Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora