Parte 30 - Ritorno a Sparta

229 19 2
                                    

Il profumo dolce delle erbe bruciate si mescolava a quello ferroso del sangue, forse risultato di un sacrificio avvenuto da poco sull'altare del tempio.

Sua sorella Artemide non disdegnava i sacrifici cruenti, specialmente se venivano da chi le rivolgeva richieste difficili da soddisfare, o doveva ringraziarla per qualche favore importante.

«Sei sicuro che possiamo entrare in questo modo?», domandò Giacinto.

«Quando sei con me puoi fare quello che vuoi», gli rispose Apollo.

Il giovane gli lanciò uno sguardo di sbieco poco convinto.

I loro passi riecheggiavano sul pavimento di pietra, le loro voci sommesse tra le due fila di colonne scanalate che svettavano fino a confondersi con l'alto soffitto.

«Poilbea», chiamò Apollo.

Un fruscio di vesti e uno scalpiccio rispose al suo ordine. Chiunque fosse nel tempio, aveva capito che era stata la voce di un dio a vibrare nell'aria.

Da un angolo in ombra sbucò Polibea. Li raggiunse con passo veloce. Il chitone bianco le copriva le gambe e le sfiorava le caviglie, diverso dalla veste corta con cui Apollo era abituato a vederla.

La luce che investiva il tempio entrando dall'ingresso tagliava l'oscurità con lame di luce. Il chitone bianco bordato di color zafferano di Polibea si mosse sinuoso, seguendo il suo passo fermo e deciso. Le sacerdotesse di Artemide dovevano avere agilità e vigore, più che grazia e gentilezza.

«Siete qui», disse la giovane, spostando gli occhi neri di ossidiana dall'uno all'altro. I capelli scuri erano intrecciati sulla nuca con ramoscelli di ulivo. Il suo tono di voce era rispettoso, ma deciso, segno che si stava abituando ad avere famigliarità con la dea che l'aveva accolta nella sua schiera di sacerdotesse.

«Posso abbracciare mia sorella anche se è la sacerdotessa di Artemide?», disse Giacinto, una nota di emozione nella voce.

«Se fossi un uomo qualunque non potresti, ma sei mio fratello». Polibea si gettò tra le sue braccia.

Apollo si allontanò di qualche passo, finse di osservare le fiaccole che proiettavano ombre e luci sugli affreschi, sulle statue dorate degli dèi e sulle suppellettili che adornavano l'edificio. Ascoltava tutto, anche a quella distanza.

«Per il momento mi alleno a Delo», spiegò Giacinto, sciogliendosi dall'abbraccio di Polibea.

«Manchi a nostra madre, ma fai bene a non tornare a palazzo, almeno per il momento. Che gli dèi mi perdonino per aver cercato di forzare la mano al Fato: la sposa di Argalo non è riuscita più a restare incinta, e non credo accadrà mai. Quando l'ho salutata per venire qui mi ha detto che avrebbe dovuto lottare anche lei per diventare sacerdotessa, invece di accettare che suo padre la mandasse in sposa a Sparta con la sua dote. Argalo e Cinorta sono ai ferri corti. Nostro padre non vuole prendere una posizione, convinto di aver già fatto il suo dovere di re. Lui ha dato a Sparta tre figli maschi, che se la vedano tra loro per succedergli al trono». Scosse la testa. «Sarà meglio non parlarne qui al tempio».

Apollo vide i loro volti turbati, anche nell'angolo in penombra dove si erano spostati. Avevano cercato di aiutare la famiglia, ma gli dèi non concedevano niente agli uomini che lo chiedevano con l'inganno. L'intrigo aveva peggiorato i rapporti tra Artemide ed Ecate, che si facevano la lotta nel consesso degli dèi e anche in cielo, ritardando ognuna il momento di apparire o scomparire con grande disappunto di Selene, che presiedeva la luna piena e che subiva le conseguenze dei loro capricci.

«Quando l'estate finirà Apollo vuole portarmi con lui tra gli Iperborei, per questo sono venuto a salutarti», disse Giacinto.

Polibea gli si avvicinò di un passo. «Sei sicuro che questa sia la scelta giusta? Vivere la vita di un dio pur essendo un mortale...»

Apollo trattenne l'impulso di intervenire, di dirle che doveva farsi gli affari suoi e che lui presto avrebbe ottenuto da Zeus l'immortalità per Giacinto. Glielo aveva accennato durante un banchetto divino. Zeus aveva accigliato lo sguardo grigio, ma lo faceva sempre quando ascoltava per la prima volta una richiesta.

Dominò il suo istinto.

Giacinto sorrise. «Il tuo volto splende, Polibea. Sei così felice, dopo aver temuto di andare in sposa a qualcuno che non ti piaceva. A te non sarebbe piaciuto nessuno, in ogni caso, perché la vita di sposa e di madre non era quella che volevi. Ce lo siamo confidato tante volte sotto le stelle del cortile, mentre il palazzo dormiva. L'amore di Apollo è ciò che mi fa felice insieme al sogno di partecipare ai Giochi. Lascia che sia felice come lo sei tu».

Tra loro passò un attimo di silenzio, il mormorio delle fiaccole che illuminavano il tempio vibrò nell'aria.

«Sono egoista, forse, ed è la nostalgia che sentirò per te a farmi parlare in questo modo». Polibea gli sorrise.

«A te non manca l'aria aperta? La corsa?»

«Artemide con me è buona. Ci sono giorni, quando altre sacerdotesse svolgono i miei compiti, in cui posso seguirla a caccia, indossare di nuovo il chitone corto». Polibea lanciò uno sguardo veloce verso il fondo del tempio. «Non posso trattenermi a lungo. Torna a trovarmi prima dell'inverno».

I due fratelli si abbracciarono, poi Polibea si allontanò. Si fermò davanti ad Apollo. «Grazie per averlo portato qui e per tutti i favori che ci concedete».

La vide scomparire di nuovo tra le ombre delle colonne. Il tempio tornò silenzioso. L'eco del frinire delle cicale era lontano. Lo ritrovarono assordante quando scesero i gradini dello stilobate, tornando alla luce violenta della mattina di fine estate.

Giacinto strinse gli occhi. «Sono contento per lei, peccato che non possa dire lo stesso dei miei fratelli. Passeranno la vita a scannarsi tra loro e io non posso farci nulla».

«Esatto».

Giacinto deglutì, lo sguardo adombrato di chi voleva fargli una domanda, ma temeva la risposta.

L'hai visto nelle tue profezie?, avrebbe forse voluto chiedergli, ma a Giacinto le profezie facevano paura. Apollo lo sentiva ogni volta che tornava da Delfi, quando si portava addosso gli odori del suo santuario e Giacinto distoglieva lo sguardo, rendeva rapide le sue carezze, correva via con una scusa qualunque.

Le profezie erano, più del suo aspetto perfetto, della luce che emanava talvolta, dello splendore della sua carnagione, la prova più tangibile della sua natura divina.

«Torniamo a Delo. Qui non abbiamo più nulla da fare. Tuo padre l'hai già salutato».

«Non così presto. Ho voglia di vedere il bosco dove abbiamo cominciato ad allenarci insieme, la fonte e il ruscello dove ci siamo bagnati la prima volta». Giacinto, che fino a quel momento gli camminava accanto, accelerò il passo e lo superò.

A lui non rimase che seguirlo, anche se desiderava tornare a Delo, nella confortante isola dove era nato e dove sua madre lo accoglieva in ogni momento per ascoltare la sua gioia e la sua frustrazione, per consigliargli di riporre le frecce d'oro sterminatrici o per dirgli che faceva bene a usarle. Delo era diventata anche la casa di Giacinto, adesso. Un luogo dove amarsi al sicuro, tra l'odore del mare e quello del ginepro.

«Non ti piace Delo?»

Giacinto si voltò rapido, i capelli che si arricchivano di riflessi di miele al sole. «Sai che mi piace, ma nel bosco è iniziato tutto. Voglio vederlo prima di partire».

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora