Parte - 24 - La violenza del Vento

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Polibea conservò i semi di coriandolo avvolgendoli in un lembo del mantello e reggendolo in una mano. «La dea ci ha accontentati. Possiamo fare a meno di Apollo e del suo aiuto», disse, un tono concitato nella voce.

«Già», disse lui.

Polibea lo scosse per una spalla. «Abbiamo ottenuto quello che volevamo. Diremo ad Apollo che ho scelto di diventare sacerdotessa di Artemide. Farò un sacrificio in suo onore. Gli dèi non possono venire meno ai patti».

Giacinto ingoiò le parole di amarezza e sfiducia con cui rischiava di infrangere le speranze di sua sorella. Era così giovane, ancora inesperta sugli orrori che gli dèi e il Fato in una sorta di competizione facevano precipitare sugli uomini. «Ti riaccompagno a palazzo. Nessuno deve accorgersi che sei uscita di notte».

Si lasciarono alle spalle l'acropoli, mentre le stelle rifulgevano ancora nel cielo. La luce di Elio e il carro di Apollo erano lontani.

Quando arrivarono Giacinto aprì il portale dell'ingresso secondario.

«E tu?», gli domandò Polibea, accorgendosi che lui non accennava a entrare.

«Preferisco camminare ancora».

«Potresti venire nella mia stanza a bere una coppa di vino. Cinorta faceva sempre così per combattere le sue delusioni d'amore».

«Faresti impallidire nostro padre», la rimproverò lui.

«Perché? A Sparta anche noi donne beviamo».

«Va'. Ce la fai senza la fiaccola?» Giacinto gliela prese.

Sua sorella corrugò la fronte. «Tenterò».

Giacinto si premurò di chiudere il portone dopo che lei fu entrata.

Sulla pelle avvertì il vento caldo del sud, una carezza che portava via l'umidità della notte. Aveva bisogno di tornare nel bosco, di respirare il senso di libertà che l'aria aperta gli dava. La città era muta e deserta. I mercati si sarebbero animati alle prime ore del mattino, ma a giudicare dall'intenso chiarore delle stelle aveva ancora un po' di tempo da trascorrere in solitudine.

Si inerpicò ancora sul versante del monte Taigeto. Il bosco dove lui e Apollo si allenavano era fresco, dal profumo resinoso che gli aveva aperto i polmoni dopo la corsa o lo sforzo delle flessioni e dei piegamenti. Il suo abete preferito svettava imponente, la corteccia ruvida, gli aghi teneri di un verde più chiaro nella stagione estiva. Sotto le sue fronde Apollo gli aveva fatto trovare i suoi regali: lo strigile ageminato, il vasetto per l'unguento e gli oli, il disco.

Giacinto conservava tutto nella sua stanza, ma non aveva toccato più nulla da quando lui e Apollo avevano litigato. Da quando Apollo gli aveva mostrato il volto dello sterminatore.

Riconobbe il pino sotto la cui ombra facevano la gara di flessioni, e il sentiero costeggiato dai rovi dove correvano. Apollo gli dava spesso un vantaggio. La forza fisica di un dio era immensamente superiore a quella di un mortale e senza quell'espediente, Giacinto non avrebbe mai potuto vincere. Apollo si divertiva a cingergli capo con la sua corona d'alloro.

Aspettiamo almeno i giochi.

Non vale se mi dai un vantaggio.

Non ho bisogno di aspettare.

Sedette sulla riva del ruscello. La sorgente gorgogliava argentina. Giacinto si divertiva a illuminarla con la fiaccola, a far sì che la superficie scura si accendesse di riflessi rossastri. Sotto la sua mano l'erba era umida e tenera. Giacinto ne strappò un filo, lo lisciò tra le dita.

Avrebbe ricordato Apollo per tutto il resto della sua vita mortale. Quanti altri anni gli rimanevano? Una manciata di granelli di sabbia, se paragonati all'eternità del dio.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora