Parte 14 - Zefiro

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L'incanto della musica si era rotto. Giacinto rimase in piedi, incerto sul da farsi, timoroso di averlo contrariato.

Anche Apollo si alzò. Lo sovrastava di poco più di un palmo, più imponente di lui. «Voglio che tu faccia quello che ti piace quando siamo insieme».

«Corriamo», disse Giacinto, per sfuggirgli.

Si involarono ancora lungo i sentieri del bosco, tra gli abeti e i pini, tra i profumi dei fiori che resistevano al calore dell'estate. Un capriolo sbucò tra i cespugli. Apollo fece per prendere una freccia dorata dalla sua faretra.

Giacinto gli sfiorò il polso. «No, ti prego».

Non voleva vedere sangue, non dopo quella notte.

Apollo annuì, e lui fu colto da una strana vertigine all'idea di aver ottenuto facilmente una concessione da lui. Il problema, si ricordò, sarebbe stato quando non avrebbero voluto la stessa cosa.

Affannati arrivarono al punto di arrivo, ancora alla sorgente che zampillava tra le rocce. Giacinto immerse le mani nel ruscello, avvertì la frescura dargli sollievo.

«Non ti immergi?», gli domandò Apollo e prese a spogliarsi. Aprì la spilla appuntata sulla spalla, il tessuto scivolò via fino a cadere sull'erba. «Avrai visto molti altri uomini nudi», disse con noncuranza.

Ed era vero, ma non aveva mai visto un dio. Non aveva mai visto nessuno che gli rendesse difficile trattenere l'istinto di sfiorarlo. L'attrazione per gli altri l'aveva facilmente scacciata, come si fa con un insetto fastidioso.

Apollo era il corpo che tutti gli scultori avrebbero voluto modellare, che tutti i pittori avrebbero voluto dipingere. Le immagini nei suoi templi catturavano appena il suo splendore, le cosce lunghe, i polpacci torniti, i piedi eleganti, il petto cesellato, il volto imperioso, lo sguardo che sapeva tingersi di sorpresa e dolcezza.

Lo vide entrare in acqua. Non gli chiese se volesse seguirlo. Giacinto immaginava che non avesse bisogno di farlo. Forse questa scena gli era apparsa in una delle sue visioni e stava solo aspettando che si compisse da quando aveva messo piede a palazzo e aveva chiesto a suo padre di frequentarlo. Giacinto immerse il piede destro nel ruscello, avanzò fino a quando l'acqua gli arrivò alle ginocchia. Poi si liberò della tunica che il sudore gli appiccicava alla pelle. Gli atleti usavano uno strigile per detergersi dal sudore, ma quella mattina nessuno dei due si era cosparso il corpo con gli oli profumati necessari per farlo.

Apollo si immerse, ma le acque trasparenti non nascondevano nulla del suo corpo, anzi, ci scivolavano sopra come se le naiadi stesse volessero accarezzarlo.

Giacinto reclinò il capo all'indietro, lasciò che l'acqua fresca della cascata gli bagnasse la fronte e i capelli. Quando raddrizzò il capo si ritrovò il dio davanti, gli occhi che gli scandagliavano il volto, senza scendere lungo il suo corpo. Quel dio era abituato alle Muse, ai corpi leggiadri delle ninfe, forse anche alle donne mortali, tutte, comunque, con un aspetto ben diverso dal suo. Lo punse la delusione e il senso di colpa per aver desiderato che Apollo lo trovasse attraente.

Desiderare un uomo per il gusto di farlo non era ben visto a Sparta. Al massimo si sarebbe dovuto scegliere un compagno d'armi più grande, un che gli insegnasse a comportarsi, a diventare un cittadino e un soldato eccellente. Queste erano le usanze, anche se non tutti le rispettavano.

«Sono stato sciocco», lo riscosse Apollo.

«Come?»

Sul volto dell'altro passò un'ombra di preoccupazione. «Ti ho fatto correre e saltare molto, sei così bravo che mi sono dimenticato della tua natura mortale».

Un'altra cosa che li avrebbe separati per sempre.

«È vero, sono stanco», mentì Giacinto.

Apollo gli prese la mano, lo condusse fuori dall'acqua. Intanto il sole cominciava a scivolare verso ovest.

«Chi guida il tuo carro?», domandò Giacinto, mentre sedeva su un masso.

«Elio può farlo da solo qualche volta», ripose l'altro con il cipiglio di un bambino che non volesse studiare.

Prima di quel giorno non sapeva che gli dèi potessero apparire così umani. Era l'aria che attorno a loro si faceva rarefatta e luminosa a tradirli, il pizzico di eternità che l'uomo si illudeva di guadagnare al loro fianco a rivelare chi erano.

Quando Apollo uscì dal ruscello l'acqua gli scivolò sulla pelle, le gocce come perle di luce che si mescolavano al colore dorato della sua carnagione. In un attimo fu come se in acqua non ci fosse mai entrato. Lui, invece, sentiva l'umidità, la sensazione spiacevole di essere colpito dall'aria fresca. Afferrò una tunica per coprirsi, penosamente consapevole della differenza tra la sua fragile natura mortale e quella divina di Apollo, ma una folata di vento più forte gli strappò il pezzo di stoffa dalle mani, lo fece ondeggiare sui sassi. Fu scosso da un brivido.

Aveva quasi dimenticato, dopo gli ultimi eventi, quanto spiacevole potesse essere Zefiro, le lingue d'aria che lo toccavano non invitate, il freddo pungente che irrompeva nelle calde giornate di primavera e d'estate. Con lui non era gentile come quando aveva sospinto la conchiglia da cui era nata Afrodite.

Zefiro lo odiava, come lo odiavano i ragazzi dell'agoghé che non avevano ottenuto da lui ciò che volevano, il soddisfacimento di un desiderio fine a se stesso che infrangeva tutte le norme di comportamento della società spartana. Forse, tra poco, avrebbe visto lo stesso odio negli sguardi densi dei maestri e dei soldati esperti che aspettavano di essere scelti da lui, per diventare il loro erastḕs.

Lui, però, non voleva nessuno. Non voleva diventare l'eròmenos di un uomo più grande. Qualcosa si agitava nella profondità del suo animo e aveva paura di capire cosa fosse.

«Il vento di ponente», lo riscosse Apollo. Lo avvolse con la sua tunica color porpora prima che lui potesse protestare.

Le braccia del dio lo cinsero, Apollo gli massaggiò le spalle, poi le braccia. Il brivido che gli aveva increspato la pelle fu sconfitto dal suo calore. Gli dèi per lui erano sempre stati freddi come la pietra, il marmo con cui gli uomini li scolpivano, o l'aria fredda sulle cime più alte dei monti. L'Olimpo doveva essere molto in alto rispetto alla misera terra.

I loro occhi si incrociarono, ma Giacinto non riuscì a sostenere a lungo lo sguardo di Apollo. La corona di alloro non ornava più il suo capo, ma il profumo gli era rimasto addosso. Sentiva le sue dita che gli si imprimevano sulla pelle oltre il tessuto della tunica, i riccioli dorati che gli sfioravano il viso. Gli fecero il solletico.

Sorrise, ma dentro si sentiva il peggiore dei traditori. Bastava questa vicinanza a fargli dimenticare la fine di Dafne?

«Cosa c'è?», lo riscosse Apollo.

«Fa freddo lassù nell'Olimpo?», disse lui, senza pensare.

Apollo si lasciò sfuggire una risata leggera. «Non proprio». Gli massaggiò la schiena. «Questo freddo è colpa di Zefiro. Ha un talento nell'arrivare quando non lo vuole nessuno. Invece quando la sua presenza è richiesta se ne sta nascosto con Borea a giocare a dadi». Corrugò la fronte, un lampo di disapprovazione nello sguardo limpido. «Come i peggiori uomini. È la prima volta che succede una cosa del genere?»

Giacinto si allontanò. «Non capsico».

«Che lui viene da te. L'hai mai incontrato?»

«No», gli mentì. Non voleva spiegargli cosa voleva Zefiro da lui. «Vorrei tornare a palazzo, se non ti dispiace».

«Va bene», disse Apollo, lo sguardo ancora fisso su di lui.

Giacinto credeva che sarebbe stato più facile mentire a un dio. Recuperò la sua tunica. Era finita tra i rovi.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora