Parte 21 - La gelosia di Apollo

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Giacinto scagliò un pugno contro un sacco riempito di semi di fichi e farina. Le fascette di cuoio sulle nocche attutirono il colpo e impedirono alla pelle di lacerarsi.

La frescura del bosco sul pendio del Taigeto quel pomeriggio allievava la fatica e il calore che l'estate glie lo sforzi fisico gli lasciavano sulla pelle. Un pugno e poi un altor, per dimenticare gli sguardi sospettosi dei suoi fratelli, quelli costernati di suo padre.

Al palazzo c'era già abbastanza tensione senza che ci si mettesse anche lui e le voci che lo volevano conteso tra il dio del vento e il dio della musica, tra un musico mortale e i maestri sotto i quali si sarebbe dovuta concludere la sua educazione.

Apollo gli afferrò il polso. «Basta così». Era dolce con lui, ma era pur sempre un dio e il suo tono imperioso, il cipiglio di chi era abituato a comandare, non potevano essere ignorati.

I sentimenti che aveva iniziato a provare per lui contro ogni ragione non potevano essere ignorati.

Giacinto sbuffò. «C'è molto da fare. Devo allenarmi meglio ancora nel nuoto, nella lotta libera, nella corsa».

«Dovresti concentrarti su una sola disciplina alla volta».

Giacinto si divincolò. «I miei rivali sono molto più preparati di me, se è vero che vuoi farmi partecipare alle gare prima delle Olimpiadi non posso permettermi di fare brutta figura».

Un lampo di irritazione rischiarò lo sguardo del dio. «Perché è soltanto in questo modo che gli altri accetterebbero la nostra frequentazione, giusto?»

«Non rendermi le cose difficili», mormorò lui. Abbandonò le braccia lungo i fianchi.

Il gorgheggio degli uccelli riempì il silenzio che era calato tra loro.

Quando stavano insieme sembrava tutto perfetto, ma quando Giacinto ritornava nel suo palazzo lo opprimevano i doveri ai quali un principe del suo rango doveva ottemperare: una moglie, dei figli, la guerra.

Non era stato capace neanche di ricambiare la dichiarazione d'amore di Apollo. Le parole gli si incastravano in gola, come se il loro suono potesse infrangere l'equilibrio di cristallo che si erano costruiti.

Apollo gli si avvicinò con il suo profumo di alloro, oli e rose. Gli prese delicatamente le mani e lo liberò delle fascette di cuoio. Poi si portò le sue nocche alle labbra. «Ascoltami, hai già lavorato intensamente negli ultimi giorni. Ora è il momento del riposo, lascia che i muscoli si rilassino per qualche ora e domani ti sentirai più in forma». Il suo tono si era raddolcito.

Era così diverso dal dio prepotente che si prendeva con la forza quello che voleva e che lanciava frecce cariche di pestilenza su chi lo aveva offeso, dal dio di cui gli raccontavano gli aedi.

Annuì. Non credeva che Apollo gli avrebbe potuto insegnare tanto. Se solo fosse stato un mortale, un membro delle forze reali, la loro relazione non sarebbe poi stata tanto diversa da quella che avrebbe avuto con un erastḕs, un uomo più grande che avrebbe dovuto insegnargli cultura e amore.

Con un rito che mettevano in pratica da giorni, Apollo lo deterse del sudore, degli oli e della terra con lo strigile, poi sedettero sulla riva del ruscello. La sorgente limpida si gettava nel corso d'acqua con un gorgoglio argentino, a cui si accordava il canto degli uccelli.

Gli era difficile immaginare un posto più bello di quello. Gli abeti e i pini ombreggiavano prati di fiori selvatici, anemoni e narcisi. Si accoccolò tra le gambe di Apollo, la schiena contro il suo petto. Apollo riusciva suonare in quella posizione, a pizzicare le corde della sua lira d'avorio, e lui rimaneva incantato dai riflessi delle pietre con cui era tempestata, dalle note melodiose che ogni volta gli sembravano diverse. Neanche l'Olimpo poteva essere tanto bello, pensò, mentre gli occhi si chiudevano e il suo corpo si abituava al calore del dio che lo teneva tra le braccia.

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora