Parte 26 - La prima volta

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Apollo sostenne Giacinto per le spalle, per impedirgli di cadere, ma avvertì subito la resistenza del giovane, il modo in cui si divincolava. Gli permise di fare un passo indietro.

Sulle loro teste, la scia di luce di Elio segnava il cielo. Un graffio sulla guancia destra di Giacinto frastagliava la sua pelle liscia.

«Che ti è successo?» Apollo allungò la mano, ma l'altro arretrò ancora.

«Un taglio durante il lancio del disco».

«Hai bisogno di un compagno di allenamenti migliore, allora. Chi ti ha fatto compagnia?»

«Perché dovrei dirtelo? Per far sì che tu lo riduca come Tamiri?» Giacinto scosse la testa, le iridi lucide di un'indignazione che nessun mortale gli aveva mai buttato addosso. «Che sciocco, no, non ti importerebbe, perché tu non sei geloso di me. Io non sono così importante».

«Dopo tanto tempo dovresti imparare a riconoscere quando parlo per rabbia».

«Un uomo non può conoscere un dio. È questo a separarci».

Non disse: non si possono conoscere gli dèi bugiardi, gli dèi che cambiano forma per ingannare gli uomini. Si prese la colpa di un divario che Apollo voleva colmare.

«Sbagli, perché mi conosci meglio di chiunque altro».

«Meglio delle principesse che seduci e abbandoni nei palazzi reali?»

Apollo si morse le labbra. Gli aedi cantavano di tutto, anche di ciò che credevano di conoscere, ma erano solo frammenti di verità che non rispecchiavano i suoi sentimenti.

«È stato prima di incontrarti. Se mai ho posato lo sguardo su qualcuno in questi giorni, l'ho subito distolto, perché non c'è niente che occupa i miei pensieri come fai tu».

«Non mi è sembrato che fosse così in questi giorni». Giacinto abbassò lo sguardo. «Voglio solo continuare ad allenarmi».

«Prima dovresti occuparti di quello». Apollo gli sfiorò il volto ferito. L'altro si irrigidì, fece ancora un passo indietro. «Lasciami fare, ti prego», disse il dio.

Giacinto incrociò il suo sguardo. «Non pregarmi».

Era così bravo a ricordare le regole, l'ordine del mondo che nessuno doveva scardinare, ma rimase immobile questa volta e permise ad Apollo di sfiorarlo ancora, di tracciare il contorno frastagliato del graffio che con la crosta cremisi infrangeva la grana regolare della sua pelle dorata dal sole. Mise la mano a coppa. Il calore si sprigionò dal suo palmo, e Giacinto chiuse gli occhi, inondato dalla sua energia benefica. Quando li riaprì il graffio era già sparito, ma Apollo non spostò la sua mano.

«Ci sono delle erbe che potresti usare, se ti fai male di nuovo. Anche se vorrei essere io a prendermi cura di te».

Giacinto gli prese il polso. «Se vuoi davvero prenderti cura di me, devi dirmi la verità». Gli piantò addosso il suo sguardo, limpido come quello della sorgente, capace di scavare la pietra con la stessa forza lenta e inesorabile.

Apollo voleva vivere con lui un frammento di felicità ritagliata dalla sua vita eterna. Poteva avere chiunque desiderasse, poteva anche sedurre una dea, se gli andava, ma in quel momento era solo Giacinto a fargli sentire qualcosa di diverso dall'indolente scorrere del suo icore. In passato si era acceso di ira e di amore, ma solo con Giacinto imparava il significato di sentirsi vivo. Un'espressione che fioriva spesso sulle labbra dei mortali e che non aveva mai capito fino a quel momento. «Ero geloso di Tamiri, ma non ho detto io alle Muse cosa fare di lui. È stato il primo a condannarsi con le sue parole. Se anche fossi stato zitto, le Muse che popolano il Parnaso e la valle di Tempe in qualche modo lo avrebbero saputo. Volevo che me lo levassero di torno, perché avevo paura che non si rassegnasse, che ti facesse del male».

Sulle labbra di Apollo (gay themed) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora