La polvere gli invase le narici. Giacinto strinse gli occhi, solo un momento per ricacciare le lacrime causate dall'odore acre. Ansimò, il petto gonfio per lo sforzo e l'adrenalina.
Il giovane che gli stava sopra, le cosce premure contro la sua vita e le dita arpionate ai suoi polsi, gli tolse il fiato. Dietro la schiena lo graffiava la polvere dello sterrato, alle sue orecchie arrivavano le urla del maestro, il paidónomos, e degli altri compagni.
Giacinto contrasse i muscoli dell'addome, serrò le mascelle. Era il figlio del re e la sconfitta non era contemplata, anche se a lui non piaceva la violenza, anche se quel contatto gli faceva venire in mente di tutto tranne che la furia dello scontro.
Con un gesto deciso spinse l'avambraccio contro la gola del suo avversario. Dalle labbra dell'altro scappò un gemito di sorpresa.
La sua incertezza fu tutto quello che servì a Giacinto per ribaltare le loro posizioni e prendere il controllo.
Il sole caldo adesso gli batteva sulla schiena, gli accendeva la nuca e i capelli cortissimi che era stato costretto a tagliare nel momento in cui era giunto, undici anni prima, a soli sette anni, nelle caserme a sud della città per iniziare il percorso educativo dell'agoghè.
«Che aspetti? Vuoi farti sconfiggere, giovane principe?» urlò il maestro.
Gli occhi neri del giovane Castore, sdraiato sotto di lui, baluginarono di rabbia.
Giacinto sapeva di non poter esitare oltre. Era abituato a questo, a sferrare colpi per difendersi, a spargere sangue quando non voleva, a seguire le regole rigide dell'agoghè per meritarsi il titolo di cittadino spartano.
Colpì il suo compagno con un pugno allo stomaco, e poi un altro contro la bella mandibola squadrata che avrebbe meritato baci. Si vergognò per quell'ultimo pensiero mentre Castore sputava una parolaccia.
«Basta», ordinò il maestro.
Castore lo spinse via, poi si allontanò strisciando a terra. Si pulì con il dorso della mano il sangue che gli colava lungo il collo, e gli rivolse un altro sguardo di sfida.
Mi dispiace, avrebbe voluto dirgli Giacinto, ma le parole non lasciarono le sue labbra.
Sarebbe stato inutile. A Castore del suo dispiacere non importava nulla.
I maestri aizzavano i ragazzi uno contro l'altro. Tra loro non doveva esserci solidarietà, ma solo una competizione esasperata.
Le ombre degli edifici si allungavano sulla terra, i riflessi rossastri del tramonto danzarono sulle alte pareti di pietra delle caserme.
Giacinto inspirò il profumo dei boschi del Taigeto che la brezza portava fino a lì. Gli sembrava di avvertire nell'aria il profumo delle prime viole, di una primavera che arrivava a intiepidire Sparta, nonostante tutto.
Mentre i compagni gli rivolgevano falsi complimenti per la vittoria, a lui venne in mente il giardino del palazzo reale, gli anemoni che lo ricamavano in primavera, le fontane zampillanti, il focolare sempre acceso, che illuminava gli arredi bronzei e dorati. Sua madre Diomeda.
Erano anni che non la vedeva. Suo padre era il re, qualche volta visitava le caserme per assicurarsi che tutto andasse bene, ma lo faceva in qualità di governante, non di padre. In quelle occasioni non gli aveva mai riservato uno sguardo diverso da quello che avrebbe rivolto a un fanciullo estraneo.
«Non ammetto ritardi a cena», lo riscosse il maestro.
L'uomo, dalla statura elevata e il petto possente di chi era abituato a battaglie difficili, gli passò accanto. Il vento gli scompigliò i capelli neri, tra cui si intravedevano fili ingrigiti. Raggiunse Castore e lo aiutò ad alzarsi, dopo avergli teso la mano. Era il suo erastḕs, l'uomo più grande ed esperto che gli avrebbe insegnato i segreti della guerra e dello stato, la responsabilità e l'amore. Il sesso, sussurravano gli altri compagni diciottenni mimando gesti osceni.
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Sulle labbra di Apollo (gay themed)
RomanceCOMPLETA SU WATTPAD Prima della guerra di Troia. Prima di Achille e Patroclo. Prima che Zefiro fosse il vento dolce della primavera. Erano Apollo e Giacinto. Apollo è il dio della luce, delle arti, della profezia e della guarigione. La testimonianz...