A diciott'anni E. è morto per amore. Questo, però, la folla che si è accalcata, la mattina di lunedì 18 agosto, sotto l'alto ponte del Rasello per soddisfare la curiosità morbosa di vedere da vicino i resti di un suicida, non lo sapeva. Per loro quel mucchietto di vestiti, di ossa e di carne era soltanto «uno che si è buttato da trenta metri». Orrore, pietà, la parola «follia», serpeggiavano tra vecchi e giovani, tra padri e madri con i figlioletti in braccio e il collo proteso per guardare.
La verità è venuta dalla lettera che i poliziotti hanno trovato in tasca dei calzoni del ragazzo. E. l'aveva scritta verso mezzanotte, pochi minuti prima di buttarsi oltre la balaustra del ponte che unisce la Sassari vecchia alla nuova. In essa non c'erano scuse. Soltanto un addio a tutti «perchè senza J. la mia vita non ha più senso».
J., la fidanzatina quindicenne di E., era spirata alcune ore prima, a metà mattina di domenica, nell'ospedale sassarese, stroncata da un male inesorabile, la leucemia. Il ragazzo non è stato capace di sopravviverle. E non si può dire che la sua decisione sia maturata in un momento di sconforto. È venuta, invece, purtroppo, dopo un logorante calvario durato dieci giorni, quanti ne sono passati tra le prime avvisaglie del male e la morte di J.
Dieci giorni e dieci notti di agonia, che i due giovani hanno condiviso. Lei preda della malattia, lui pervaso ogni ora di più dalla disperazione di non poter fare nulla per salvarla, di vedere dissolversi, istante dopo istante, la felicità che avevano scoperto e assaporato soltanto da pochi mesi.
E. e J. si erano innamorati in primavera. Si trattava, per entrambi, di quel primo amore che, nonostante la rivoluzione sessuale e gli stress del modo di vivere odierno, ognuno di noi si porta chiuso dentro per tutta la vita, delicato miscuglio di dolce orgoglio, di tenerezza e di piacere.
Presi da questo sentimento esaltante, E. e J. si sono avvicinati, ma con una delicatezza e una serietà davvero d'altri tempi.
«Per tutti e due era una cosa seria», sono concordi nell'affermare gli amici di lui.
«Non che parlassero di matrimonio, però tra loro non c'erano quelle "crisi" tipiche delle cottarelle che durano solo qualche mese e poi chi s'è visto s'è visto», dice una compagna di J.
«Li univa qualcosa di tranquillo e di profondo. Non so trovare le parole giuste, ma J. era felice e serena», spiega un'altra. Assieme, dunque, E. e J. formavano una coppia affiatata e serena, al riparo dai velleitarismi così comuni a troppi loro coetanei, per i quali amore e sesso fanno subito tutt'uno. In comune i due
ragazzi avevano anche un particolare interesse: facevano parte di un'associazione scoutistica, alla quale si dedicavano con grande entusiasmo. Erano stati, perciò, doppiamente felici quando, alla fine di luglio, erano partiti con le loro squadre di giovani esploratori per il campo-raduno di Montepisanu, presso Bono, a un centinaio di chilometri da Sassari. Era un'occasione per vedersi più spesso, per assolvere, uno accanto all'altra, le incombenze della giornata. Quasi uno spensierato preambolo a quella che sarebbe stata la loro futura vita coniugale. Un sogno a occhi aperti, nel quale era naturale giurarsi amore eterno e immergersi in una felicità che nulla sembrava poter scalfire.
La serietà delle intenzioni di entrambi è fuori discussione: un sacerdote vicino a E. e a J. ce l'ha confermato.
«Niente di ufficiale per il momento; il ragazzo si sarebbe diplomato geometra l'anno prossimo; J. frequentava il secondo anno del liceo scientifico», dice il nostro interlocutore. «Erano giovani e
per sposarsi potevano tranquillamente aspettare che lui finisse l'università e trovasse una buona sistemazione. Volevano fare le cose con calma e com'è giusto. Invece...».
Invece, dopo una decina di giorni di campeggio, J. ha cominciato ad accusare malesseri e il suo stato di salute si è andato rapidamente aggravando, tanto che il medico curante ne ha ordinato il ricovero in ospedale per una serie di analisi. Il responso degli esami clinici è stata una sentenza inappellabile: leucemia, il "cancro del sangue", che distrugge i globuli rossi e contro il quale la medicina non ha ancora trovato armi valide. Anche le trasfusioni di sangue, in moltissimi casi, sono soltanto un palliativo.
Per E. quella notizia ha rappresentato il passaggio da un sogno esaltante al peggiore degli incubi. Dapprima incredulo, poi sempre più disperato, si è trovato nella mente l'assillo di una domanda esasperante, che mai trovava una risposta: «Perché doveva capitare proprio a noi? Che cos'ha fatto J., che cosa ho fatto io, che cosa abbiamo fatto, noi, per meritarci una punizione simile?».
I rari sprazzi di speranza sono destinati a durare soltanto poche ore. I ricordi di felicità goduta fino a pochi giorni prima adesso sono motivo di dolore per quanto egli sa ormai perduto e irripetibile.
«E. si chiudeva ogni giorno di più in se stesso», racconta uno dei suoi migliori amici. «Era diventato cupo e a nulla servivano le parole di conforto mie e degli altri. Ogni volta che lasciava l'ospedale appariva più abbattuto. Era come se quel male terribile avesse preso anche lui».
Quattro giorni prima della morte di J., quando ormai i medici avevano tolto ogni speranza, E. era andato a parlare con un sacerdote, don D., della parrocchia di San Giuseppe, per chiedergli conforto.
«Se J. muore non voglio più vivere», aveva detto al religioso.
Questi aveva fatto ricorso a tutta la sua forza di persuasione, ricordando al giovane i suoi doveri di cristiano e di uomo, che Dio ci sottopone a prove durissime e che non sta a noi giudicare, che la vera vita non è su questa terra e così via, proponendogli il conforto della fede e della preghiera.
Fosse stato meno innamorato, meno giovane, meno idealista E., forse, avrebbe compreso e si sarebbe fatto una ragione del dramma che stava vivendo. Invece, quando la mattina della domenica seguente ha visto spirare J., è corso fuori dall'ospedale gridando: «La seguirò nella tomba!».
Ai presenti, ed era naturale, è sembrato che si trattasse di una frase pronunciata nel momento del dolore più grande, che la solitudine di alcune ore sarebbe stata la cura migliore. Per questo, soltanto a sera, non vedendolo rientrare, i parenti hanno cominciato a preoccuparsi seriamente. È stato diramato l'allarme e sono iniziate le ricerche. Per tutta la notte parenti e amici hanno setacciato le vie di Sassari alla ricerca del ragazzo. Inutilmente.
Soltanto l'indomani mattina un giovane ha visto un corpo sfracellato in un orto sotto l'arcata centrale dell'altissimo ponte del Rasello e ha avvertito la polizia. Tra una folla indisponente di curiosi in
cerca di macabre sensazioni, un fratello e due sorelle di E. hanno riconosciuto ufficialmente il cadavere e hanno letto la lettera con la quale il ragazzo ha detto addio a tutti.
«Perché senza J. la mia vita non ha più senso».
Cambiate il nome e potrebbe averla scritta il Romeo di Shakespeare.
La lettera che la madre di J. ha scritto ai Cugini di CampagnaGentilissimo complesso,
sono la mamma di J., la ragazza morta a Sassari il 17 agosto, affetta da leucemia; nella stessa sera E. si buttò dal ponte per amore di mia figlia.
Molti ragazzi dei boy-scout mi dicono che voi avete scritto e musicato la canzone Preghiera, dedicata ai nostri ragazzi. Mi complimento con voi; è molto bella; è come mia figlia era. Ed E. ha veramente implorato il Signore, ciò che voi, con le vostre parole e con la vostra musica, dite.
Vi sono molto grata di quanto avete scritto e continuate a dire verso i nostri angeli, che sicuramente ci guardano dall'alto.
Vorrei da voi una conferma; cercate di capire due mamme.
Vorrei dilungarmi tanto, dandovi tante benedizioni, ma, credetemi, la commozione mi ha vinta.
L'angelo di J. e di E. vi protegga per tutta la vita.
Vi abbraccio tutti, con tanto, tanto amore, come se voi foste i miei ragazzi.
MIn questa pagina è riportato l'articolo di giornale, risalente al 1975, che racconta di una sfortunata storia d'amore di due adolescenti di Sassari e che ha ispirato la canzone "Preghiera". A questo segue la
lettera di ringraziamento scritta dalla mamma della ragazza ai Cugini di Campagna, un ricordo al quale essi sono molto affezionati. Per motivi di riservatezza allora vennero riportate riportate solamente le iniziali dei
nomi citati.
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