A casa mi avevano sempre insegnato che gli affari degli altri non si toccano, eppure con molte eccezioni. Una delle prime cose che papà mi ha impresso in testa è che la nostra famiglia è fondata sulla tradizione e uno dei peggiori nemici di essa, secondo lui, sono questi pagliacci che scherzano con il diavolo solo per avere qualche attenzione. Quando me ne ha parlato la prima volta avevo circa sei anni e avevamo appena visto una coppia di donne che si baciava su una panchina. Il discorso che mi fece fu duro e inevitabile, ma soprattutto non ammetteva repliche: quello equivaleva al male e alla malattia mentale, e in casa nostra non era lontanamente tollerato. Mi ricordavo vividamente il suo sguardo mentre mi diceva che l'unico modo per scacciare certe... tendenze malate fosse sopprimerle con la forza. Quel discorso non solo mi era entrato in testa alla perfezione, ma diventò il mio riferimento principale, da cui poi nacque tutta la mia cultura su cosa fosse permesso e cosa no. La mia unica fortuna era che MAI ero stato tentato a certi errori e mai avevo sentito il desiderio di peccare in quel modo. Ingenuamente avevo sperato che quella lezione fosse entrata in testa anche a Diana. Mi sentivo sopraffatto da tutte quelle cose fuori posto, e la conversazione con Vincent non fece che aumentare il mio disagio generale. Quando tornai a casa quella sera, dopo due estenuanti ore di shopping pagato alla follia, non feci a meno di notare che le scarpe di mia sorella erano di nuovo davanti alla porta senza però il cappotto. Mi diressi verso camera sua, che era socchiusa. Entrai senza bussare e la trovai li, con i capelli scompigliati e gli occhi contornati di nero. Stava facendo le valigie: se ne stava andando. Aveva raccolto velocemente gran parte delle sue cose e le stava raggruppando in un unico borsone. Quando mi vide non si fermò, fece finta di non notarmi e tentò di chiudere la zip. -Diana- Sussurrai. -Nico- rispose lei senza girarsi, il tono deciso che non mi aspettavo. -Dove andrai? Non puoi sottoporti a qualche rimedio? – Lei si fermò, e ridacchiò. -Nico, non esiste rimedio, fa parte di quello che sono- Si girò verso di me e il gelo che vidi in lei mi pietrificò -Comunque non è più affar tuo. Hai già... fatto abbastanza- Abbassai la testa e deglutii sabbia. Lei si mise il borsone a tracolla e mi sorpassò, diretta alla porta. -Diana ti prego pensaci- La seguii a passo svelto. -Nico smettila, sei il più grande e dovresti... riflettere con la tua testa, invece lo fai con quella di nostro padre- Prese le sue cose e mi guardò un'ultima volta, tenendo la testa alta -Sei tu che devi pensarci, non io- Detto ciò se ne andò, lasciandomi un peso immenso nel petto. Lei non capiva, non capiva che papà non centrava e che io non ero condizionato da nulla. Io odiavo i froci, incondizionatamente da quello che faceva o non faceva papà. Ingoiai il groppo che avevo in gola e mi imposi di ignorare l'accaduto. Ormai era finita e lei non faceva più parte della mia vita. Per scelta mia, non di mio padre. Eppure non riuscii a dormire quella notte: avevo troppi pensieri, troppi sensi di colpa. La mattina dopo sembravo uno zombie. Volevo coprire le occhiaie, ma usare il correttore di mia madre era fuori questione, quindi feci un bel respiro davanti allo specchio e mi preparai per la scuola, consapevole che molto probabilmente mi sarei addormentato appena incominciata la lezione. E infatti, dopo aver subito le noiosissime attenzioni di una Miriam preoccupata, ero praticamente svenuto sul banco. Passate due ore e finita la lezione, fui abbandonato dai miei amici, che probabilmente non si erano nemmeno accorti della mia assenza. Avevo dormito male, infastidito dalla luce del sole alla quale mi ero abituato con non poco sforzo. Quando però non vidi più quella luce attraverso le palpebre, d'istinto mi svegliai. Infatti qualcuno, ci misi un po' a capire di chi si trattasse, la stava coprendo. Sbattei più volte le palpebre, ma rimasi immobile. Quando la figura si accorse che ero sveglio, o almeno tentavo di svegliarmi, si accucciò sulle ginocchia per guardarmi in faccia. Mi ritrovai davanti Vincent, con il suo solito sorriso sghembo sulle labbra. -La principessa si è svegliata? – Lo ringraziai con un'occhiataccia, giusto per rimanere fedele al mio modo principesco. Lui ridacchio e si spostò, sedendosi nel banco davanti al mio. Sbadigliai e mi guardai intorno, ancora intorpidito. La classe era vuota e l'orologio indicava le 10:03. -Che ci fai ancora qui? – Domanda abbastanza inutile, ma non si poteva pretendere molto dopo il mio scomodo pisolino. -Ho ricambiato il favore. E poi sinceramente da addormentato sembri molto meno incazzato- Ormai ero sveglio, ma non abbastanza da rendermi conto della stranezza di quella frase -Non sono incazzato– Risposi abbastanza confuso. Lui sorrise, guardando fuori dalla finestra. -Ne sei sicuro? - Mi sentivo quasi offeso dalla sua affermazione, infatti nessuno poteva sapere cosa mi passasse per la testa e trovavo molto arrogante che credesse di saperlo -Non mi conosci- -Non serve, ho gli occhi e li uso- Mi sfuggì un sorriso -Li usi per le cose sbagliate allora, non vedo perché dovrebbe interessarti il mio stato d'animo– Vincent si alzò, e ridacchiò senza togliermi gli occhi di dosso -Allora siamo in due a non saperli usare– Detto questo si diresse a grandi passi verso la porta -A me sembra che siano gli altri a non guardare abbastanza. Comunque devi dormire di più, principessa- Mi sorrise un'ultima volta prima di andarsene. Mi resi conto di quanto fossi teso solo quando lui sparì dalla mia visuale. Sicuramente il ragazzo aveva fatto pratica davanti allo specchio provando e riprovando la sua uscita ad effetto, perché non mi spiegavo come avesse fatto a lasciare nella stanza quell'aurea di mistero e teatralità quasi nauseante. Nonostante mi desse fastidio, la nostra piccola conversazione mi aveva dato da pensare, e riuscii addirittura a dimenticarmi di mia sorella per un secondo. Mi fece riflettere perché avevo parlato con una persona che, nonostante non mi piacesse per niente, aveva visto qualcosa, molto più di quanto avessero fatto gli altri in anni e anni di conoscenza. Mi domandai perché, fino a quel momento, non avessi mai avuto a che fare con quel ragazzo tanto noioso e arrogante (e forse anche frocio), ma apparentemente sveglio, molto più di tutti gli altri caproni dei miei coetanei. So già cosa si può pensare, ma potevo riconoscere i pregi di qualcuno anche se non condividevo le sue preferenze sessuali. Ok, magari non le tolleravo proprio, però bastava che si tenesse a distanza di sicurezza; non mi interessava se si divertiva a scherzare con il diavolo. Comunque sia mi aveva lasciato molto confuso. Anche lui osservava veramente le persone che lo circondavano? O osservava me? Scacciai immediatamente il pensiero e cercai di concentrarmi sui compiti di geometria che avevo davanti da almeno mezzora, senza aver scritto nemmeno il titolo. Mi porsi l'ultima domanda, fondamentale nel mio piccolo e intricato ragionamento: perché adesso? Dopo 4 anni nella stessa classe, per quale motivo aveva incominciato in quel momento ad attirare la mia attenzione? Non avevo la risposta nemmeno a quello, quindi feci uno scarabocchio sul quaderno per poi lanciarlo sul letto. Chiamai Miriam e le chiesi di uscire -Porta anche tuo fratello se vuoi- le dissi. Magari mi sarei annoiato di meno.
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My Dear God
RomanceVincent è un ragazzo strano, lo sanno tutti. Nico è un ragazzo strano ma nessuno lo saprà mai. Nico odia i gay. Vincent no, direi di no. Nico ama odiare tutti. Vincent vorrebbe odiare di meno e amare di più. Vincent ansima il suo nome. Nico gli dice...