★seconda sezione: il migliore amico

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4:il migliore amico

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4:il migliore amico

;your lips, my lips.
apocalypse.

uno degli innumerevoli vantaggi del vivere da soli, lontani dai nostri genitori, era la libertà di poter sperimentare finalmente tutti quegli aspetti più grossolani dell'adolescenza, dai quali, nelle villette di periferia in cui crescemmo, fummo sempre protetti. alla mia fervente madre sarebbe venuto un colpo, sarebbe collassata a terra con una mano stretta al petto se avesse saputo che il suo perfetto, nonché unico figlio, avesse ceduto alle tentazioni del demonio, provando qualche tiro di uno spinello girato dalle sue stesse, inesperte dita.

non comperammo mai della vera erba con i nostri soldi, ma più tardi, quella stessa notte, decidemmo di spostare le poltrone per fare spazio al divano che il giorno dopo felix sarebbe andato a recuperare con il furgoncino dei musicisti, alla guida, uno di loro. l'avrei fatto io, se non avessi avuto un ingaggio come fotografo per un matrimonio proprio in quella stessa data; all'epoca era quello, il mio lavoro, avevo una fotocamera professionale ed una passione, che non fruttava molto, ma era ciò che volevo fare. inoltre, si trattava pur sempre entrate utili, e non aspiravamo mica a vivere nel lusso. ci bastava ciò che avevamo.

felix infilò dunque la mano fra i cuscini, aggrottando le sopracciglia quando con i polpastrelli sfiorò una minuscola, cilindrica scatolina di dura plastica trasparente, all'interno, un tocco di fumo delle giuste dimensioni per una rispettabilissima cannetta. la osservammo, domandandoci come potesse essere finita lì.
«sarà caduta dalle tasche di qualcuno alla nostra festa.» fu la mia azzardata ipotesi, e la demmo per buona, prima di sprofondare nuovamente nel silenzio, riflettendo sul da farsi. non avevamo mai avuto a che fare con alcun tipo di droga, a malapena contemplavamo l'esistenza degli alcolici pesanti, ma era un momento alla 'adesso o mai più', e ci ritrovammo in dubbio.
che fosse stato un segno del destino?
«quanto è squallido e scorretto, da uno a dieci, fumare la roba di uno sconosciuto?» mi chiese, piegando la testa da un lato ed io ci pensai per qualche istante, prima di cercare le mie cartine, del tabacco ed un biglietto dell'autobus usato, che usai come filtro. non avevo mai preparato una mista, ma ero convinto non sarebbe stato per nulla differente dalle sigarette che avevo imparato a girarmi da solo.
«cinque, direi.»

non ricordo chi tra noi la accese, o chi ne fece i primi tiri, ma ci ritrovammo distesi sulle sediole di legno dell'angusto balcone, con le palpebre pesanti e le braccia stanche. i discorsi che affrontammo, li rammento alla perfezione.
«mamma mi ucciderebbe.» sorrisi sommessamente io, tra uno svapo e l'altro.
«ma tu credi in dio?» mi domandò improvvisamente felix, senza voltarsi, e mantenne lo sguardo fisso contro la finestra aperta del palazzo di fronte al nostro, che dava su una televisione accesa su una partita di calcio, che mai ci interessò. io strinsi le labbra, tastandomi la punta del naso.
«che domanda è?» ridacchiai, lentamente.
«ci conosciamo da sedici anni, e non ti ho mai chiesto se credi o meno in dio!» biascicò alla mia stessa velocità, scuotendo il capo come fosse stato profondamente deluso dalla mia reazione. allora annuii, prendendo la questione altrettanto seriamente, e accavallai una gamba sull'altra.

«non saprei-» esordii, tirando su col naso.
«mi piacerebbe, credere in dio.» ammisi, dopo averci pensato per una manciata di minuti, o secondi, non saprei dirlo, ma era una domanda piuttosto azzeccata da porci, ed effettivamente non ne avevamo mai parlato. passare l'infanzia in case profondamente cattoliche, e venire tirati su come due chierichetti, non aveva tuttavia sortito l'effetto che le nostre famiglie avevano arditamente desiderato. non pregavamo prima dei pasti, non una sola domenica mattina mettemmo piede in una chiesa, e soprattutto, nessuno di noi avrebbe sposato una bella donna con la quale avrebbe avuto un paio di bambini. io non sarei mai stato un buon padre, né un bravo marito, e felix sapeva che non sarebbe mai stato in grado di sfiorare una donna.

giunto il suo turno, mi sfilò la canna dalle dita, e la portò alle sue labbra con disinvoltura.
«a me no. con tutto ciò che di brutto accade nel mondo, preferisco pensare non ci sia un dio, piuttosto che osservi senza fare nulla.» confessò, ed io non potrei non dargli ragione, nonostante fossi leggermente intontito dalle sue parole e dal modo in cui le trascinava a fatica, tentando di seguire un filo conduttore. le nostri madri avevano fallito, avevano cresciuto due irreligiosi, atei fin troppo realisti per credere nell'esistenza di una presenza tanto evanescente.
«giusta osservazione.» mi ritrovai ad annuire, constatando con un broncio che il nostro giocattolo si fosse esaurito fino al filtro, e restammo fermi, stanchi, forse un po' marci.

quando il mio migliore amico trovò poi la forza di voltarsi nella mia direzione, i suoi occhi s'incontrarono timidamente con i miei. mi accorsi solo in quel momento, di aver passato minuti interi ad osservargli i capelli, sbiaditi.
«ti va di guardare piovono polpette?» propose, di punto in bianco, mi chiesi se fosse stato per cambiare argomento, o perché semplicemente, avesse avuto voglia di guardare piovono polpette.
«certo.» risposi quindi, poi mi ricordai di non aver ancora collegato i vari cavi della televisione, e giurai che l'avrei fatto un giorno di quelli.
«se vuoi posso recitarlo. lo so a memoria, so anche la canzone.» suggerì, prendendo un respiro profondo prima di fare mente locale sulla scena iniziale del cartone animato che tanto adorava. aspettai per un po', in attesa di uno spettacolo al quale mai assistetti.

felix aveva chiuso gli occhi, ed io premetti con delicatezza contro la sua spalla, cercando di tenerlo sveglio, ma lui mugolò e mi sentii in colpa anche solo per averlo sfiorato. sollevò le sopracciglia, e mi guardò con i suoi enormi, rossastri occhi scuri, pronto a dirmi, probabilmente, quanto stanco fosse. deglutii, sentii il mio respiro affannarsi, le mie labbra improvvisamente secche, chiamavano le sue, e non resistetti. anche quella volta, non me ne presi la responsabilità, incolpando il mozzicone della nostra canna sul posacenere.
«felix?» lo chiamai, avvicinandomi.
«hyunjin.» replicò lui, serio.

mi ci vollero un paio di secondi in più, per dar voce ai miei pensieri, incerto sul come organizzare la frase in modo tale che non sembrasse patetica tanto quanto lo sarebbe stata se gli avessi detto di credere di provare qualcosa per lui. in ogni caso, non fui elegante e disinvolto come un verso poetico.
«posso baciarti? solo per un secondo?»
«certo.» tagliò corto lui, rispondendo con una velocità tale che neppure me ne accorsi, come un riflesso spontaneo, e continuai a parlare come uno scemo, prima di accorgermene.
«voglio solo capire una cosa.»
«ho detto certo, fa' come vuoi.» scrollò le spalle, serenamente, ed io rimasi immobile a guardarlo, prima di annuire e con riluttanza, catturarlo in un delicato bacio.

in quell'istante, rasentammo il puro peccato, e se le nostre madri ci avessero visti, avrebbero pregato in ginocchio il signore di risparmiarci dalla stretta di satana. io mi resi conto che le fiamme dell'inferno avrebbero comunque bruciato meno di quanto lo avrebbe fatto il rimorso del non assaggiare le sue labbra.


𝐬𝐩𝐢𝐥𝐥𝐞𝐝 𝐦𝐢𝐥𝐤 • 𝐡𝐲𝐮𝐧𝐥𝐢𝐱Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora