2. stranieri

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Ottobre 2005

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Ottobre 2005

La pioggia scendeva dal cielo dal colore plumbeo, spento e privo di vita su un terreno cosparso di foglie i cui colori viravano dal rosso al giallo. In quella giornata autunnale e solitaria, Iman se ne stava in disparte, seduta a gambe incrociate su una poltrona corrosa dal tempo della sala comune. Facevano da sottofondo la pioggia stessa ed il debole chiacchierare delle altre persone che tenevano in mano tazze ricolme di tè alla vaniglia per riscaldarsi.

Iman era immersa nel suo mondo: le cuffiette nelle orecchie e la sua canzone preferita nell'ipod che portava sempre nella tasca dei jeans. Aveva lo sguardo perso, assente e distante. Quasi non sembrava essere lì. Chiuse gli occhi e tirò un lungo sospiro, facendo fuoriuscire tutta l'aria dai polmoni come se si fosse liberata da un peso gravoso sulle spalle.

La ragazza non era mai stata una persona particolarmente estroversa e solare, sin da piccola, preferiva starsene da sola o, comunque, con i suoi amici più stretti che, sfortunatamente, non ebbe più l'occasione di vedere dopo l'apocalisse avvenuta sette anni prima.

Raccoon City. Quella città, le cui fondamenta vennero rase al suolo da armi atomiche, sancì una crepa irreparabile nella vita della giovane Iman la quale imparò una lezione che da quel momento mise in pratica ogni giorno: mai fidarsi di nessuno. Ma del resto, come poteva pretendere di avere fiducia negli altri quando la prima persona di cui non si fidava era se stessa? Era una ragazza estremamente fragile, che non mostrava mai la vera versione di sé agli altri. Essa era morta il giorno in cui scoppiò l'epidemia di Raccoon City. Solo ansia, paura e sgomento dominavano i suoi giorni da sette lunghi anni.

I pensieri stavano offuscando la mente della ragazza, la quale, colta dall'impeto del momento, si recò in camera, dalle pareti scrostate, e prese dall'armadio la sua fidata giacca di pelle nera oversize, segnata dal tempo anch'essa. Era l'unico capo che le restava della madre che non rivide più da quel funesto giorno.

"Jackson, sono le sette, tra poco è ora di cena, dove sta andando?" le domandò indispettita la signora Young, nonché rettrice della comunità.

Ella si aggiustò gli occhiali per vedere meglio la figura tormentata della povera ragazza: i capelli erano lunghi e ricci seppur spettinati, il viso segnato dalle occhiaie ataviche, le labbra piene e leggermente screpolate. Indossava un paio di jeans strappati e larghi insieme ad una semplice felpa grigia. Ai piedi portava i suoi soliti scarponcini neri.

"Vado fuori, ho bisogno di aria" disse con un tono che lasciava trasparire noncuranza.

"Non le è permesso, le ho già comunicato di andare in mensa"

" Mi voglia scusare ma credo di essere indisposta" rispose, mordendosi il labbro inferiore dal nervosismo.

"Allora vada in camera, non so che altro dirle" le comunicò freddamente la signora Young prima di dileguarsi, lasciando Iman da sola in camera sua. Si guardò attorno: la camera era stranamente in ordine. Scandagliò ancora una volta la finestra intrisa di piccole gocce d'acqua e decise di aprirla. Un odore di terriccio bagnato si fece strada nelle sue narici ed il viso venne inumidito dalla pioggia. Osservò l'altezza della camera rispetto al suolo: giusto qualche metro. Guardò alla sua sinistra e notò una delle tubature che sporgevano rispetto al palazzo.

BLACK STAR - leon kennedyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora