1. questione di abitudine

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2 settembre 1998

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2 settembre 1998

Caos, disordine e terrore furono le parole che definirono la crescita della piccola Iman durante la sua breve permanenza nella città statunitense di Raccoon City. L'epidemia causata dalla società farmaceutica Umbrella Corporation, nota come T-Virus, aveva infestato la città con mostruose e innominabili creature che sconvolsero l'equilibrio sociale. Le persone che prima conosceva si trasformarono in esseri mai visti, dall'aspetto tremendo e pauroso. Secondo gli studi degli scienziati, le persone infette manifestavano comportamenti aggressivi, deformazioni corporee, incapacità di ragionare e parlare. Avevano perso completamente le fattezze umane.

"Corri, Iman, corri, più veloce che puoi!" le disse con voce affannata la madre Helena, dai capelli biondi come spighe di grano e dai lineamenti maturi.

"Dov'è papà?" urlò la ragazzina, che aveva appena diciassette anni. Gli occhi erano rossi per il pianto, la voce tremolante, così come le gambe.

"Papà è al sicuro, te lo prometto, bambina mia," cercò di rassicurarla, mentre il panico dilagava in città. Persone smarrite e terrorizzate correvano da tutte le parti in cerca di una via di fuga, ma niente, Raccoon City era diventata un vero e proprio ginepraio, dove si poteva presagire solo l'orrore della morte.

Un boato fece girare madre e figlia: la stazione di servizio più vicina era appena esplosa a causa di un camion che si era scontrato con essa. C'erano feriti ovunque e nessuno che potesse aiutarli. Tutti urlavano, scappavano in mezzo alle fiamme e agli infetti che, fuggiti dagli ospedali perché immuni alle cure, mordevano la povera gente, infettandola a loro volta.

"Mamma, quelle persone hanno bisogno di aiuto, non possiamo lasciarle morire!"

Iman si rivolse alla madre con uno sguardo allarmato, preoccupato e colmo di apprensione per quelle povere persone che non ce l'avevano fatta. Pianse, pianse fino a sentire il volto bruciare per le lacrime che fuoriuscivano come cascate.

"Amore, non possiamo, dobbiamo andare," le intimò, prendendola per un braccio, mentre con la mano libera teneva una pistola per difendersi.

Helena sparò a due infetti che correvano verso di loro, e Iman, istintivamente, chiuse gli occhi per non assistere a quella scena terrificante. C'era una cosa sola a cui la madre teneva di più, ed era il benessere di sua figlia, per la quale avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di tenerla in vita.

Le due corsero fino ad avere il fiato corto verso la loro autovettura: una jeep nera segnata dal tempo. Vi salirono e subito la madre si mise alla guida verso l'autostrada più vicina.

"Cosa- cosa erano quelli?" chiese Iman, intimorita, con la voce tremolante.

"Non lo so, tesoro. Ora dobbiamo andare da papà, credo sia nel bunker di sicurezza a nord-ovest."

La ragazzina si limitò ad annuire. Era troppo scossa dagli eventi di quella sera, quando scoppiò l'epidemia. Non si capacitava di come, da un giorno all'altro, la sua vita fosse cambiata in modo così repentino: la mattina prima era a scuola a chiacchierare con le sue amiche, mentre quella dopo si era ritrovata a scappare da creature mostruose e misteriose, fuoriuscite dal nulla.

Dopo un'ora, le due approdarono al bunker, un luogo isolato e sperduto in mezzo alla campagna, dove la polizia di Raccoon City stava effettuando controlli alle persone per accertarsi che non ci fossero infetti.

"Salve, sono Helena Jackson e lei è mia figlia Iman. Avete per caso notizie di mio marito Luister?" domandò la donna con tono spasmodico.

"Mi dispiace, abbiamo appena finito i controlli e questo nome non è sulla lista," esordì freddamente un poliziotto dallo sguardo algido e dal tono distaccato.

"Mamma, non è morto, vero?"

"Non- non lo so, tesoro," rispose la madre con le lacrime agli occhi, mentre l'abbracciava tentando di calmarla, anche se invano.

"Signora, la prego, ora dobbiamo accertarci che non siate infette. Si giri di spalle," le intimò uno dei poliziotti, prendendo in mano un dispositivo in grado di rilevare lo stato di infezione grazie a una piccola puntura sul retro del collo. Ad un tratto, il rilevatore emise un rumore fastidioso, accompagnato da una luce rossa.

"È infetta! Johnson, sai cosa devi fare," disse all'altro poliziotto, girandosi verso di lui.

"Aspettate! Non fatele del male, vi prego!" li supplicò Iman, con gli occhi lucidi, una volta ancora.

"Ragazzina, stai indietro, vai con gli altri," disse freddo, prendendola per un braccio, dopo essersi accertato che fosse risultata negativa al test.

Iman cercò di dimenarsi, ma non ci riuscì. La presa dell'uomo era troppo salda e la sua stazza massiccia non era neanche paragonabile a quella minuta della ragazza, ancora in età puberale.

"Lasciatela, stronzi!" urlò ai poliziotti, che avevano in mano dei fucili ed erano pronti a sparare alla madre, messa in ginocchio sull'erba morbida, che aveva assunto il colore blu cobalto del cielo.

Ad un tratto, Iman sentì il rumore assordante di uno sparo e si girò dall'altro lato per non assistere a quella scena straziante e crudele. Non riusciva a credere che avesse appena perso la madre e che non avesse potuto fare nulla. Ormai l'aveva persa, per sempre. La ragazza, in quel momento più inerme che mai, non riusciva a smettere di piangere, sia per il dolore che per la rabbia cocente dentro di lei. Sentì la gola bruciare per gli urli, che vennero completamente ignorati dai poliziotti, i quali mostravano l'empatia di un muro di gomma.

Però, come in tutte le cose, è solo questione di abitudine. Ci si abitua a tutto, pure a ciò a cui non si riesce a credere. E così fece la piccola Iman, che dopo qualche settimana venne portata in una località sperduta al di fuori di Raccoon City, successivamente distrutta da una bomba nucleare il 30 settembre 1998, un giorno che sancì una crepa nella vita di tutti.

Iman crebbe in una comunità insieme ad altri ragazzi rimasti orfani da quel giorno funesto. Nonostante l'ambiente cercasse di essere il più accogliente possibile, lei non riuscì a integrarsi bene, a causa del trauma subito, ancora impresso nella sua mente. Spesso aveva incubi: la mente la riportava sempre a quel giorno, tormentando la sua giovane vita, spezzata in un istante.

***

Era una fredda notte di dicembre e la neve si era depositata sul piccolo aggregato di case che costituiva il villaggio in cui abitava Iman, la quale stava dormendo tranquilla, apparentemente. Era avvolta nelle coperte, data la bassa temperatura e il riscaldamento malfunzionante.

Bastò un attimo, una visione, un'immagine nitida per farla svegliare di colpo. Il rosso del sangue, il nero del cielo notturno...

Iman aprì gli occhi di colpo, sgranandoli per tentare di rimuovere dal suo cervello quelle visioni tremende. La fronte era imperlata di sudore, le mani tremavano e il respiro era affannato. Il petto le si chiuse in una morsa, la vista era annebbiata e la stanza sembrava girare all'impazzata. La ragazza chiuse gli occhi, sperando che quelle visioni sarebbero terminate prima o poi, anche se, in realtà, sapeva benissimo che ogni giorno sarebbe stato più lungo e insopportabile del precedente.

Era rimasta sola, completamente sola, in balia di se stessa. Si sentiva terribilmente inerme e impotente nei confronti di ciò che la circondava, ma soprattutto nei confronti di se stessa. Ogni giorno era una battaglia persa.

No, ti prego, basta!

Implorava la ragazza, guardando il soffitto, ma niente. La sua mente non le voleva dare pace. La sua mente non le voleva dare pace. Solo in quel momento decise, come di routine, di prendere il suo fidato ansiolitico per calmarsi. Prese un bicchiere, lo riempì d'acqua e inghiottì la pillola. Solo per un momento trovò un po' di sollievo dalle immagini macabre che la sua mente le proponeva.

Ma sapeva che quella sarebbe stata una di altre migliaia di notti insonni.

BLACK STAR - leon kennedyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora