Capitolo 38

268 18 2
                                    

Attenzione⚠️
In questo capitolo verrà trattato, seppur in maniera superficiale, il tema dell'autolesionismo.

Honey, light me up

I'm full of darkness

I'm in my darkest era

Darkest Era, Joy and Grief

La pioggia mi investì a neanche un isolato da casa. La giacca di pelle mi proteggeva dall'acqua gelida, ma avevo il freddo cristallizzato nelle ossa.

I capelli mi si erano appiccicati alla fronte, le mani mi tremavano per il disgusto che provavo.

Disgusto per me stesso.

Un disgusto profondo, un ribrezzo così amaro che mi seccava la gola.

Come avevo fatto a credere che qualcuno avrebbe mai potuto accettarmi? Io? Il povero sfigato che non era nemmeno riuscito a difendere la propria madre? Quello ricoperto di orribili cicatrici dalla testa ai piedi?

Da bambino anche le mie braccia e il mio addome presentavano piccolissimi sfregi e per questo, una volta cresciuto, avevo deciso di coprirli con tatuaggi ondulati e la maestosa fenice sullo stomaco. Per quelli, avevo almeno trovato una soluzione, un modo efficace per occultarli parzialmente alla vista.

Per le cicatrici sulla gamba destra, invece, non c'era stato verso. Quella era completamente andata. Impossibile da tatuare perché la pelle era diventata raggrinzita e troppo sensibile a ogni genere di tocco.

Una stilettata alla coscia mi fece traballare. Il classico dolore fantasma che si ripresentava quando ero sotto stress, quando ripensavo a quella notte infernale.

Mi aggrappai al muro con la mano, artigliando il bordo di un mattone con le dita.

Era tutto... troppo.

Troppo per il mio corpo, troppo per la mia mente. Mi accasciai, era inutile ormai restare in piedi.

Che stupido. Credevo di aver raggiunto il paradiso, ma dovevo sapere che l'unica casa per me era l'inferno.

Scivolai a terra, ignorando le occhiate che la gente mi lanciava.

Penseranno che sono un barbone.

Al pensiero risi, forse per mascherare l'amarezza, forse perché stavo diventando definitivamente pazzo. Poi poggiai la schiena al muro e inclinai il capo all'indietro.

Gocce dolci di pioggia mi bagnarono il viso, mischiandosi alle mie lacrime. Le ruote delle auto sfrecciavano sull'asfalto, i semafori illuminavano le strade di colori, i clacson ruggivano nelle mie orecchie.

C'era un turbine di rabbia e disprezzo nel mio petto. Ma non erano destinati al mio angelo, mai al mio angelo.

Quelle emozioni erano tutte per me.

Sei un mostro.

Sei inutile.

Sei un demone.

Mi fai pena.

Mi fai pena.

Mi fai pena.

Il dolore alla gamba non passava. I miei polmoni sembrano pieni di sassi. Dentro la testa avevo mille voci confuse: mi urlavano contro, mi ripetevano quanto fossi sbagliato.

Con la vista sfocata, intravidi una figura davanti a me. Mi sembrava familiare, ma non potevo esserne certo.

«Che cazzo ci fai qui, ...?» Pronunciò il mio nome. Il mio vero nome. Solo poche persone al mondo avevano il diritto di chiamarmi così, o erano abbastanza fortunate da conoscerlo.

How to love Phoenix Kant [Trilogia How To #2]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora