Capitolo 8:Dove scopro un posto magico

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Era da ore che mi rigiravo nel letto cercando di non svegliare i miei fratelli, che invece dormivano profondamente, per trovare una posizione per assopirmi che non mi provocasse fitte allucinanti in tutto il corpo. A pancia in su no perché, con tutte le volte che ero caduta di sedere o di schiena, mi ero riempita di lividi grandi come meloni. A pancia in giù proprio no perché avrei tenuto appoggiate le ginocchia e queste erano tutte tagliuzzate e sanguinolente. Sia sul fianco sinistro che su quello destro era impossibile dormire perché avevo delle enormi botte su tutte e due le spalle.

Sbuffai. Non ce la facevo più a rotolarmi come un wurstel sulla piastra; così, stando attenta a non fare rumore, scesi dal letto. Non feci in tempo a fare due passi che una delle tante assi del pavimento cigolò producendo un "gnic" "gnic" che fece rigirare nel sonno la ragazza che dormiva nel letto accanto al mio. Mi bloccai di colpo nel punto stesso in cui mi trovavo, preoccupata di averla svegliata, ma, appena questa riprese la tipica espressione di chi sta facendo un sogno bellissimo e sprofondò con la testa nel cuscino, tirai un sospiro di sollievo. Mi avvicinai ad uno dei pannelli che a contatto si aprivano per mostrare al loro interno un'armadio pieno di vestiti, quasi senza nemmeno controllare che fossero i miei, presi dei pantaloncini di jeans e li indossai. Non volevo di certo uscire ed andare in giro per il Campo con indosso solo una magliettona lunga fino alle ginocchia verde acqua con su scritto "Sogni d'oro" e null'altro sotto a parte le mutande. Sempre brancolando nel buio e cercando di non calpestare le assi cigolanti del pavimento, mi avvicinai all'ammasso di scarpe accanto alla porta e presi le stesse scarpe giallo evidenziatore di quella mattina (anche se non mi piacevano per nulla, oramai ne avevo rivendicato la proprietà e, visto che nessuno era venuto a reclamarle me le ero tenute). Mi chiusi le scarpe con il doppio nodo e uscii dalla capanna sette per andare a fare un giro, chiudendomi nella maniera più silenziosa possibile la porta dietro le spalle.

Arrivata sul pianerottolo della capanna, iniziai ad aggirarmi per il cortile centrale con un'aria serena. Stare in piedi e camminare mi faceva sentire di meno il dolore che avevo in tutto il corpo (certo, le uniche cose che non mi facevano male erano le piante dei piedi!). Mentre passeggiavo mi guardai intorno: l'aria che si aggirava per i cortile comune era leggera e calda; cosa che mi sorprese visto che eravamo a dicembre inoltrato e di solito in quel periodo dell'anno a New York c'era la neve, che però non si era ancora degnata di fare capolino nel cielo. Le fronde sopra la mia testa stormivano e scrocchiavano creando una sinfonia rilassante che mi fece sbadigliare più volte come un ippopotamo e tutte le capanne del Campo erano silenziose, con le luci spente e le tendine tirate tanto da sembrare del tutto disabitate (cosa che poi non si poteva più pensare dopo esserci stati dentro dopo soli tre secondi). Tutto sembrava immerso nella pace. Come in un sogno...

Di punto in bianco, mentre passavo davanti alla capanna dei figli di Poseidone, vidi due ombre nere volare sopra di me ad una velocità impressionante. Spaventata, ma al contempo incuriosita da quel movimento improvviso, lì per lì pensai di nascondermi. Alla fine la curiosità ebbe la meglio e provai a socchiudere gli occhi per vedere cos'erano quelle due ombre svolazzanti sopra la mia testa. Prima ancora che potessi anche solo metterle a fuoco, qualcuno mi strinse l'avambraccio con forza e mi sentii trascinare dietro ad uno dei muri della casa di Poseidone, così da nascondermi la vista del cortile centrale.

Subito fui presa dal panico. Se una persona ti stringe così forte il braccio vuol dire che esige che tu vada con lei senza storie e la maggior parte delle volte non ti porta in un bel posto...

Disperatamente cercai di liberare in ogni modo il mio braccio dalla presa delle mani che lo stringevano, ma queste rimanevano strette e inamovibili. Esasperata quasi urlai -Lasciami il braccio! Chiunque tu sia!

A quelle parole la pressione attorno alla mia carne scomparve e passò in maniera fulminea sulla bocca. Una voce che stentai a riconoscere, sibilò -Shhh! Sono io, Martina. Non urlare. Potrebbero sentirti.

La figlia della MusaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora