Casamatta #5

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"Fingiamo per un attimo che io sia morto e sepolto, e che stia quindi scrivendo le mie memorie.

Un secondo, no: di prendermi anche dello zombie non ho troppa voglia.

Fingiamo piuttosto che io abbia un piede nella fossa, nulla da perdere, e che stia quindi scrivendo le suddette memorie senza troppe remore.

Sì, così mi sembra decisamente meglio.

La verità è che ho scalato le vette della psichiatria e, con tutti i colleghi pronti a farmi le scarpe alla prima occasione, ora non posso che permettermi di sfogarmi con questo pezzo di carta.

E sia, renderò comunque piena confessione, la straccerò quando riterrò d'aver spurgato il male che m'infetta.

Tutto ebbe inizio a causa di due begli occhioni verdi.

Una bambolina, lei: piccola, dolcissima.

Virginale quanto una cagna in calore.

Non mi credete? Non dubito, ma il pezzo di carta che sto vergando lo farà, dovrà farlo.

Chiacchieravamo come due vecchi amici, io e lei, quella sera, al lago.

L'epiteto di vecchio si addice però alla mia persona soltanto: appresi durante quella conversazione che la bambolina in questione non aveva che sedici anni.

Ad ogni modo, lei sosteneva d'esser figlia di un mio collega, e sembrava infatti insolitamente interessata a farsi raccontare i prodigi delle nuovissime tecniche per tenere a bada i malati di mente.

Mi guardava con desiderio, ve lo giuro, mentre le spiegavo il funzionamento della "droga della regina Vittoria", il cloroformio, in grado di anestetizzare addirittura durante il parto.

E, tralasciando il resto della nostra lunga chiacchierata, voglio ribadire che fu lei la prima a mettermi le mani addosso: mani che si muovevano con una tale esperienza che io nemmeno mi stupii troppo quando mi accorsi che non era più intonsa di una qualsiasi meretrice.

Per giorni mi chiesi chi lei fosse: perché si era spacciata per la brava figliola di un mio stimato collega, se invece si trattava più probabilmente di una giovane avviata al mestiere più antico del mondo?

Ne ero ossessionato, e dovetti fare un notevole sforzo per non fantasticarci più: quel che era stato era stato, e di certo non l'avrei più rivista.

E invece sì: ecco che mi faccio bello per un ricevimento e mi trovo, quasi come un'apparizione, la meretrice di buona famiglia tutta ingioiellata e sorridente in una delle case più eleganti della città.

Da qui in poi ho sbagliato tutto, questo devo ammetterlo.

Preso dal panico, volevo accertarmi che non avrebbe detto a tutti ciò che era stato, o peggio, che non avrebbe inventato storie più compromettenti della realtà stessa.

La portai in un salottino deserto, mi ritrovai addosso uno sguardo smarrito che sembrava non aver nulla a che fare con quello che ricordavo sul suo viso.

Mi ci volle un po', per capire che lei non aveva memoria di quanto accaduto al lago.

Pian piano la feci ragionare, la feci ricordare.

Ho sbagliato, ora lo so.

La mia diagnosi sarebbe giunta tardiva.

La stringevo tra le mie braccia, e lei piangeva, chiedendosi e chiedendomi come avesse potuto dimenticare quella sua - cito testualmente - sola ed unica esperienza d'amore.

A mia discolpa, posso dire soltanto che con quella bambolina fragile tra le braccia non era facile ragionare. Lei era stata la mia ossessione, capite? Posso girare attorno alla questione finché voglio, ma tant'è, la verità è una sola: me ne stavo innamorando, e non ero in grado di valutare a quale razza di caso clinico stavo permettendo di strusciarsi sul mio corpo.

Quando ad un tratto si staccò da me e prese a guardarmi come se stessi abusando di lei, fui sul punto di insultarla: che accidenti voleva, quella schifosa? Rovinarmi? Ricattarmi? Forse agiva per conto del padre, o di qualche altro stimatissimo collega?

Solo di fronte al suo attacco di panico compresi che la parola giusta non era "schifosa", bensì "ninfomane".

Un caso clinico, appunto.

Una che cerca il suo piacere in chiunque, poi dimentica, ritenendo inaccettabile ciò che ha fatto.

Provai pena per lei, e tutto ciò che seppi fare per aiutarla fu somministrarle un'ingente quantità di ansiolitico.

Fermai le sue convulsioni, ma non il delirio.

Mi accusò di aver abusato di lei anche al lago, disse che avevo usato il "coso-formio".

Avrei riso, se non ci fosse stato da piangere.

Mi toccò attendere una mezz'ora abbondante, finché non si calmò.

Al finire della crisi, ero certo che avrebbe dimenticato ancora, ed ero altresì deciso a lasciarmi alle spalle l'accaduto.

L'ho fatto, ma un bel giorno, circa due settimane fa, l'apparizione si è ripresentata.

Ora la stanno curando qui, nella mia clinica. Ho predisposto perché sia trattata come una regina, nei limiti del possibile, e nutro la segreta speranza di poter un giorno parlare con lei, serenamente, di quanto accaduto.

Intanto sto cercando di capire se il suo disturbo psichico possa essere di origine traumatica: ho ragione di sospettare che quell'idiota di Luini, quello che continua a raccontarmi che "la cara Sophia per lui è come una figlia", stia mostrando fin troppo interesse a non far riemergere i ricordi della ragazza. La imbottisce di farmaci all'inverosimile, e ha insistito perché venga mandata dal terapista più incapace dell'intera struttura... Ma come, il padre non l'ha fatta ricoverare perché possa ricordare, capire, essere aiutata...

Tuttavia, di fatto, anch'io sto male per quanto accaduto, e forse è la paranoia a parlare per me.

Per ora, tutto ciò che mi unisce alla dolce Sophia è una cura farmacologica che dovrebbe riportarci entrambi alla lucidità.

Questo è quanto.

E, dato che non ritengo di aver davvero un piede nella fossa, ora vado a procurarmi qualcosa di tagliente per fare a pezzi le mie compromettenti memorie."

Al termine della lettura, ogni traccia di luce lasciò gli occhi di Sophia.

Si chiese cosa sarebbe potuto essere e cosa effettivamente fosse stato.

Non era in grado di ragionare, quando la donna sconosciuta cercò il suo sguardo:

"Ribadisco che hai fatto la cosa giusta." le disse.

A Sophia sembrò di vederla risplendere, la guardò con meraviglia.

"Ascoltami, Sophia: in questo mondo non avrebbe potuto essere, capisci? Eravate imprigionati in menti malate, deviate, tristemente dedite a convenzioni a voi insopportabili... Se ti fiderai di me, ti prometto che le cose andranno a posto."

Sophia annuì, in estasi.

Capì che quella non era un'infermiera, né un'amica di suo padre: doveva essere una Dea.

Lasciò senza timore che l'essere soprannaturale guidasse ancora una volta la sua mano, mentre estraeva il bisturi dal collo del suo sfortunato amante e lo portava all'altezza del suo polso destro.

Tagliò con decisione ogni piccola vena blu.

Si accasciò al suolo immediatamente, già provata dai farmaci.

E, mentre il sangue dei due amanti si miscelava libidinoso, già il buio e la pace avvolgevano entrambi.



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