Male Dire #5

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Di quella sera maledetta ricordo bene il vigoroso sbadiglio di Lena, mia sorella.

Sbadigliò assonnata, calma e innocente. Per nulla turbata dal fatto che attendevo una visita. Né troppo curiosa, o preoccupata, ma avvezza all'idea di un incontro tra ragazzini che avevano fatto amicizia sui pascoli.

Poco dopo arrivò lui, occhi di cielo.

Lena si mise in piedi per accoglierlo con me. E io stavo per richiudermi la porta alle spalle, quando due gitani spinsero da parte il ragazzo dall'aria gentile.

E Lena forse perse i sensi, o solo la lucidità. La vidi accasciarsi a terra, ma senza realmente cadere. Preferì il sonno a ciò che stava accadendo. Ma il suo viso era orribilmente segnato da una smorfia sgraziata che non potrò mai scordare, e il capo, riverso in modo innaturale, tradiva che il suo non era semplice dormire.

Il più grosso dei due gitani richiamò la mia attenzione prendendomi la mano. Mi avrebbe spaccato un dito per ogni rappresaglia, e me lo disse guardandomi negli occhi e parlando sottovoce. Serio e penoso.

Credevo che avrei vomitato, tanto il mio stomaco si stava smuovendo. Ma non accadde.

Probabilmente tutto questo non durò che per pochi secondi appena. Probabilmente. Era come se lo scorrere del tempo fosse anch'esso turbato: come i miei pensieri, procedeva lento e confuso.

Ricordo che, una volta trovata un po' di calma, quel minimo per decidere cosa fare o dire, e come, e perché, mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa, un oggetto per difendermi.
Allungai una mano verso il bastone con cui scacciavo le vipere tra i sassi. E se fossi riuscita a darglielo in testa, probabilmente, l'avrei spezzato. Il bastone, s'intende. Il gitano avrebbe riso di quel mio gesto disperato, e con quel ramoscello che poco fa ho definito bastone mi avrebbe forse cavato gli occhi. Forse. Non ci riuscii, non fui capace di prenderlo. Perché, non solo il tempo, ma anche lo spazio era incerto e confuso, e l'ipotetica arma appariva a tratti vicina, a tratti distantissima. Inafferrabile.

Immaginare che la vita di ognuno, e quella di noi avanzi d'umanità in particolare, possa essere interrotta da una morte violenta e dolorosa, è tutt'altro affare. Non è come tenere la propria mano in quella di un maledetto che minaccia di spezzarla.
E ancora sembrava che gli oggetti si muovessero, e che attorno il silenzio fosse strano, denso e fischiante. Non so cosa mi si leggesse in faccia, forse ero sbiancata, forse ansimavo... ma il criminale si premurò di redarguirmi:

"Se mi dai quello che voglio, domani non avrai nemmeno un graffio."

Allora presi un respiro, feci segno di sì con la testa. Poi mi ricordai di lei e la cercai con lo sguardo; Lena era rimasta immobile.

Un brivido fortissimo lungo la schiena mi svelò lo scorrere del sudore, copioso. Un fiume freddo tra le mie scapole. Nemmeno ero certa che Lena fosse viva... era forse vita, quella che le smuoveva le spalle di tanto in tanto? Stava davvero respirando?

Ricordo di aver pensato che se l'avessero toccata sarei morta.

Morta, senza sfumature o ripensamenti.

Morta.

Mentre morivo, il gitano vecchio e grosso disse a quello giovane e minuto che avevamo raggiunto un accordo, e che tutto sarebbe stato facile. Poi mi prese per mano e mi sbatté al fianco di Lena, sul giaciglio. Gravando su di me, mi immobilizzò a terra.
E poi vidi il gitano giovane avvicinarsi a Lena e, finalmente, gridai. Forte.
Il modo in cui il mio aggressore mi tolse la mano dalla mano, per mettere entrambe le mani sulla mia bocca, mi fece capire che forse la mia voce poteva essere un'arma migliore del bastone sfuggente. Forse, perché ancora avevo paura, e ancora non potevo ragionare.

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