Il coltello #6

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Di nuovo, non lo rividi per giorni.

Dopo il bacio appassionato, ci eravamo scambiati il numero di telefono e tutto quanto, ma lui non rispondeva e non richiamava.

Decisi di recarmi al suo negozio.

Lo guardai attraverso il vetro, poi entrai e camminai verso di lui ostentando un passo sicuro.

C'erano appena tre o quattro falcate tra la porta e il registratore di cassa dietro cui sedeva, eppure sembrarono accadere un sacco di cose.

Primo passo, ed ero sicuro di volergli rimproverare la totale latitanza.

Secondo passo, e già pensavo che fosse più utile, giusto, nonché piacevole, dirgli quanto mi fosse mancato... e quanto gli stessero bene i capelli leggermente più ordinati, come li portava quel giorno.

Terzo passo, e fu lui a parlare: "Hai un aspetto orribile, forse covi l'influenza e sarebbe meglio che mi stessi lontano," mi accolse.

Sbuffai.

"Bruno, perché sei così..."

"Ti racconto una storia, ti va?" mi chiese. I lineamenti del suo viso presero a fremere come quelli di una bestia braccata. Annuii, non senza un po' di timore. "C'era una volta," attaccò lui, "una famiglia di quattro persone. Mamma, papà, fratello, sorella. Un brutto giorno, un grandissimo stronzo sulla cui faccia rugosa spiccavano due occhioni azzurrognoli decise che uno dei quattro, uno a caso, era un grandissimo chiromante, un mago! Però, la cosa andava verificata. Andava verificata facendo stronzate per vedere se il grande mago fosse in grado di prevederle. Stronzate grosse, capisci? Così che lui non potesse decidere di fregarsene. Finché la mamma morì, il papà crepò, il grande mago non desiderò altro che di stramazzare a sua volta. Fine."

Io ascoltai senza sapere cosa dire. Avevo l'impressione che dovesse scoppiare a piangere da un momento all'altro, ma non una sola lacrima solcò le sue palpebre. Sentii un brivido lungo la schiena. Non avevo capito granché della storiella o, meglio, non riuscivo a discernere la realtà dal delirio, tuttavia, avrei voluto poter fare qualcosa per quel ragazzo, così provai ad assecondarlo:

"Stai cercando di dirmi che il mio professore ha causato l'incidente in cui sono morti i tuoi? Perché, se è così, allora non è più di incidente che si tratta. Dovresti denunciarlo alle autorità, o almeno a scuola, così da non dovertelo magari trovare in aula..."

Mi fermai. Bruno guardava a terra con un ghigno poco rassicurante sulle labbra. Come se fossi stato io, quello che delirava. "Bruno, ti aiuterò, possiamo andare assieme a..."

"Smettila," mi interruppe, "e, se non devi comprare nulla, esci da qui. Con te non voglio avere nulla a che fare, quel poco che c'è stato è stato un errore, una stupidaggine, nulla più che una distrazione."

Sospirai, un po' indeciso sul da farsi. "Se cambi idea..."

Ma mi accorsi che era assente, lontano. E mentre io avevo voglia di piangere e arrabbiarmi, lui appariva del tutto indifferente; il momento del suo tempo dedicato a me era già finito.

E finì che me ne andai da lì in silenzio, con un groppo alla gola.

Uscii in strada senza quasi curarmi del freddo, puntai verso l'università in cerca di un volto amico.

Quando trovai Mauro gli raccontai ogni cosa.

Di come mutava il suo sguardo, di come faceva a volte osservazioni argute, per poi apparire timido e persino a disagio con le cose semplici e comuni. Di come mi guardava schivo, selvatico. Di come i suoi occhi si perdevano nel vuoto spalancandosi all'aria. Ma anche, e soprattutto, di come ci eravamo baciati.

Ecco, a ripensarci, non gli avevo raccontato nulla. Nulla di come mi aveva ipnotizzato tenendomi la mano, di come ipnotizzava i suoi clienti, di come aveva forse sedotto Cicchelli. Di come si rifugiava in storie assurde, in ragazze dei sogni e grandi maghi, per affrontare ciò che la vita gli aveva riservato.

"Devi darti tempo," mi consigliò Mauro, "non pensare a questa faccenda per... due settimane, o anche un mese. Poi ci ripenserai a mente fredda. Così saprai se davvero ti interessa così tanto, e forse anche lui sentirà la tua mancanza se smetti di assillarlo."

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