Il coltello #7 (ultima)

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Mi ero imposto di attendere un mese esatto, ma appena due settimane dopo accadde un fatto nuovo. Ebbi modo di scoprire che, sebbene i manicomi fossero chiusi da tempo, il mondo aveva ancora un suo modo di separare i malati di mente dalla parte sana dell'umanità; almeno durante i momenti peggiori. Lo chiamano TSO, che sta per Trattamento Sanitario Obbligatorio, e consiste nel prelevare, anche forzatamente, un paziente psichiatrico nel momento in cui esso risulti pericoloso per sé o per gli altri. Se necessario, segue il ricovero obbligato, con tanto di sbarre alle finestre. E tutto ciò accadde a Cicchelli, non a Bruno.

All'università girarono diverse voci in merito, non si seppe mai il vero motivo di tanto intervento.

Una parte di me volle immediatamente credere che fosse perché il vecchio professore era insanamente fissato con Bruno. Magari al punto da essere, in un modo o nell'altro, coinvolto nell'incidente dei suoi genitori.

Decisi quindi di correre subito dal mio ragazzo ombroso, dovevo dirgli che gli credevo. Che volevo sentire la sua storia, ascoltarlo, consolarlo. Che, insomma, ora gli credevo davvero.

Il giorno stesso in cui a scuola circolò l'inattesa notizia del professore uscito di testa, mi prefissai di raggiungere l'erboristeria già in serata.

Era ormai iniziato l'inverno, ed era già buio quando raggiunsi la mia destinazione.

A stento riconobbi la vetrina: la scarsa illuminazione dava al locale un aspetto tetro, la polvere non aveva risparmiato nessuno degli oggetti esposti. Pensai che Bruno e sua sorella non se la passassero troppo bene, e mi ripromisi di aiutarli per come potevo, magari coprendo qualche turno, o comunque inventandomi qualcosa.

Ero fiducioso.

Poi, un enorme scarafaggio morto tra le saponette artigianali mi suggerì di frenare la fantasia.

Accanto a me, notai una ragazza bionda tutta intirizzita guardare il mio stesso scorcio d'abbandono con molto meno trasporto. Lei entrò, io rimasi fuori.

Osservai la ragazza guardarsi attorno, e riuscii anche a intravedere Bruno: era lì, spettinato e stravaccato sul registratore di cassa.

La ragazza iniziò a sfogliare i libri.

Bruno rimase immobile.

La ragazza guardò verso Bruno.

E Bruno restò inerte a non guardarla.

Occhi negli occhi, ma non la guardava.

La ragazza lo interpellò, chiaramente stranita.

Io sospirai, poi tornai a concentrarmi su Bruno; mentre la cliente parlava, lui, semplicemente, muoveva le labbra. Estraniato, lontano, altrove. Forse diceva cose di senso compiuto, ma non era davvero lì, non era davvero lui.

Giunse poi la sorella, la cliente venne servita e se ne andò.

Io rimasi ad osservare ancora, provai persino ad entrare. Uscii prima che Bruno si accorgesse della mia presenza e, con ciò, non intendo definire repentina la mia uscita.

E allora capii, chiaramente, che mai avevo fatto parte del suo mondo, né mai avrei potuto farne parte. Potevo credergli, consolarlo, persino amarlo. Ma non averlo. Il mio ragazzo ombroso non era mio. Non voleva né poteva esserlo in alcun modo. E ciò che era stato tra lui e Cicchelli sarebbe rimasto tra lui e Cicchelli, in quel mondo chiamato follia che li aveva in qualche modo risucchiati entrambi.

Quel che restava di Bruno era talvolta calda emozione, talaltra freddo raziocinio. Ma quel giorno, finalmente, capii che lui non era né l'una né l'altra cosa. Poiché se un coltello sembrava aver distaccato due facce di lui, la sua vera essenza era la lama. E quella lama, quel filo intangibile, non era cosa da aversi. Non si poteva far altro che tentare di recepirlo nei dolorosi tagli che sapeva infliggere.

E me ne andai così, perdendo alcune lacrime per tenermi caro il sangue.

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