Chapter one_Inferno.

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Era un luogo desolato in cui regnava il silenzio, non quel silenzio religioso e armonioso, non quel silenzio riempito di pensieri e meditazione, bensì un silenzio interrotto da lamenti.

Si udivano scricchiolii di ossa rotte e frustate. I picconi erano consumati e troppo pesanti per una figura minuta e scheletrica come lei. Ora le restava solo Ģnu, ma sentiva l'odore pungente della vita che abbandonava il corpo della donna. Scavavano interrottamente, senza sosta, mentre degli uomini, nudi e sudici, estraevano una linfa nerastra.

"Ģnu si alzi, la prego. Arrivano i guardiani; la uccideranno. Si alzi. Le faranno lo stesso trattamento di Äkeyul," disse la giovane provando a sollevare l'anziana signora allo stremo delle forze. Ģnu era rannicchiata e stringeva la pancia nel tentativo di contrarla e assopire il dolore della fame. I guardiani continuavano ad avanzare alternando una marcia da patibolo a delle frustate. Avevano caratteristiche simili. Erano ombre circondate da tante luci puntiformi che ne rendevano la sagoma. I volti non mutavano e avevano un'espressione arcaica. Li contraddistinguevano anche un sorriso accennato, occhi ridotti a due fessure, naso appuntito e zigomi alti, come se fossero un disegno fatto per rendere l'essenziale. Le luci presenti erano poggiate sulle schiene ricurve di quegli esseri abominevoli, mentre altre erano stanziate su massi compatti a forma di cilindro. La miniera era scavata sotto la terra rocciosa e trattenuta da delle travi di legno poste in filari isonomi, ovvero uguali. I blocchi, che trattenevano il soffitto della miniera dal cadere sulle teste dei poveri lavoratori, erano sagomati a forma di parallelepipedo. Inoltre, erano posti in modo si che la giuntura di ogni elemento di una filare corrispondesse con il centro di quella sottostante e soprastante.

"Mia dolce Liniæ, è arrivata la mia ora. Non piangere. Sei finita sotto la mia ala quando eri piccola come questo mucchio di terra,"Accumulò la terra fangosa in un solco profondo. Il respiro era affannoso, alla ricerca disperata di aria... di ossigeno. Le labbra erano semiaperte, mentre il corpo, nascosto dalla tunica, esaltava all'occhio la nudità della donna. "Ho provato a trasmetterti i miei saperi. Non smettere mai di credere e sperare. Mai. Perché tu..." Ģnu non riuscì a finire la frase che venne trasformata in cenere dopo un sorriso radioso, accompagnato però da occhi spaventati, diventando così parte del cumulo di terra che formava un solco in mezzo a un mare di fango. I guardiani diedero quattro frustate alla bambina col viso sporco di terra, ninfa nerastra e lacrime che provava a ingerire. Qualsiasi goccia per lei era essenziale. I segni rossi scavavano nella pelle facendo fuoriuscire sangue scuro e liquido; linee non simmetriche si espandevano in tutto il corpo. Guardò il suo riflesso in una pozza, e vide una bambina dai lunghi capelli appiccicosi con qualche traccia del nero originale. Nella radice partiva il grigio dato dalla polvere e nelle punte era presente il marrone tanto comune: dato dal contatto con il luogo. I lunghi filamenti le coprivano tutto il viso e non riusciva a separare le ciocche per dare uno sguardo al volto innocente, segnato da una crosta solida e nera che lasciava intravedere due pozze ancora più nere, circondate da delle occhiaie violacee. Le labbra, che si stagliavano nel viso fanciullesco, erano screpolate e tagliuzzate. Ahimè, il corpo, esile e quasi inesistente, era forgiato dalle cicatrici delle frustate che le lasciavano segni anche nella memoria. A fasciarle il petto assente e le magre gambe, ripiegate sulle ginocchia, era una tunica donatagli da Ģnu che apparteneva a una donna morta, poiché a lei non serviva più. Le stava grande, ma la riscaldava e proteggeva. Adesso però, non avendo neanche la signora che la cullava, non le restava altro che piegare le ginocchia e portarle al busto, circondando il tutto dalle braccia, in modo tale da dare un abbraccio a se stessa...un abbraccio forte e triste... un abbraccio che non le avrebbe dato nessuno... perché lei... non aveva nessuno. Strisciò, ancora scossa dalla perdita della sua corazza e dal dolore lancinante delle frustate subite, fino al mucchio di polvere grigia, un tempo l'unica persona che si fosse presa cura di lei... e contemplò i momenti passati insieme. Portò alla memoria i suoi ricordi tra lacrime e singhiozzi. Desiderava lasciare tutto e finirla, ma non poteva poiché non ne aveva il coraggio. Era codarda. Aveva paura della morte, ma cos'era la morte? "Questa che sto vivendo... è la vita, è vita?" Si chiese.

Riportò alla memoria i racconti dell'anziana Ģnu. Più volte le aveva raccontato di un posto chiamato Terra. In esso regnavano uomini e donne come loro, che vivevano liberi perché la libertà nessuno la donava, si nasceva con essa. Animali, diversi da Caronte e pacifici, erano regnanti di tutto quel verde che lei aveva solo sognato. L'unico colore che conosceva era il marrone e le sue sfumature, poi conosceva l'assenza di colore che la circondava e la componeva: il nero, a cui associava il buio. Un uomo, con uno strano copricapo che portava fieramente in testa, le aveva detto che, da dove veniva lui e lei, nella notte tante luci coprivano il manto cupo. Già... luci... L'unica luce che aveva visto in vita sua era quella prodotta dal fuoco delle miniere che si portavano i guardiani. Quindi si immaginò uno sfondo nero ornato da tante palle rosse che bruciavano.

"Chissà cos'è la libertà... e dove hanno portato la mia? Sono nata con essa?" Si domandò ella, ancora restante nella posizione di prima. Se qualcuno con un minimo d'interesse l'avesse vista, avrebbe pensato che fosse una statua scomposta nella sua tenerezza. Un viso troppo doloroso per la realtà giovanile... un viso troppo fine per la cruda fantasia.

"Tu lavorare, adesso," disse un uomo alto e dalla carcassa assente come lei. Era pelato e nel corpo si notava la cassa toracica. Per non parlare della spina dorsale evidenziata notevolmente e delle ossa delle gambe, facilmente numerabili! Le vene sporgevano a tal punto che a Liniæ venne voglia di toccarle, per capire, attraverso il tatto come fossero, ma si limitò ad annuire. Continuò la sua routine come se non fosse accaduto niente. In fondo, cos'è davvero che era successo? Aveva solo perso una parte del suo mondo...

Un ragazzo biondo, con gli occhi verdi spenti, le porse il piccone, composto da un bastone di ferro ruvido e un'ellisse metallica dalla forma di una mezza luna oscura. Lo aveva abbandonato incastrandolo in una parete.

Era leggermente più grande di lei e più alto, ma anche lui era scarno. Le guance erano piuttosto scavate, invece l'espressione stanca e vissuta. La terra lo aveva imbrattato quasi completamente, lasciando intravedere alcuni punti in cui si poteva notare la pelle bianca come la neve.

"Perché piangi?" Chiese egli riportando viva in lei l'immagine della donna morta qualche minuto prima, e di cui nessuno si preoccupava.

"Perché voglio avere la mia libertà. Perché voglio riavere Ģnu. Perché voglio vedere la copertina del cielo," rispose singhiozzando e prendendo il piccone dalla mano dell'altro, affinché potessero lavorare.

"Cos'è la libertà? Vuoi troppe cose. Non sprecare le lacrime, sono preziose. Dev'essere stato una vicenda terribile quella che hai passato, ma non mai perdere l'insegnamento." Le accarezzò il viso e, in tutto quel male, Liniæ sorrise, pentendosi subito dopo. Come poteva sorridere dopo la morte di Ģnu? La parete sembrava più dura mentre l'attrezzo lo colpiva e così smise per qualche secondo di scavare.

"Qual è l'insegnamento?" Domandò titubante riprendendo a scavare con il piccone nel muro, fino a raggiungere l'ennesima sostanza argillosa.

"È arrivata l'ora di crescere. Piangere non riporta in vita. Piangere ti consuma. Piangere non affievolisce il dolore, ma lo porta all'apice. Ti divora. Sorridi finché puoi. Stai già scavando la terra. Non scavare anche la tua bara." Le porse un altro sorriso sincero, per poi continuare "Mi chiamo Safar, tu?" Il liquido scivolava per terra e uomini, sempre chini e dal volto deturpato, raccolsero la sostanza con delle cisterne.

"Liniæ," rispose, affondando i piedi nel terriccio e stringendo la presa nel manico in ferro del suo unico arnese.

"Liniæ nella mia madre lingua significa sole. Il sole illuminava tutto e tutti e riscaldava. Portava tanta luce, senza mai chiedere nulla in cambio. Il mio significa vuoto, perché io sono così: vuoto," le raccontò in tono malinconico, sforzando leggermente la voce. Faticava a parlare, mentre continuava assiduamente a scavare la roccia.

"Ti aiuterò! " Esclamò.

" Aiutarmi a fare cosa?" Chiese il giovane, inspirando ed espirando lentamente.

"A riempirti... a riempire il vuoto che hai dentro. Raggiungeremo l'orlo," disse entusiasta. Aveva un'altra ragione per vivere che si sarebbe aggiunta a un lungo elenco. Così almeno sperava...

"Grazie," si limitò a dire lui, porgendole un vero e proprio sorriso.

"In cambio mi farai vedere il sole," continuò lei.

"Vedrai quanto brilla. Illumina a tal punto che devi distogliere lo sguardo e non smette mai di farlo."

In una giornata come altre, due bambini avevano stretto un patto... non un patto di sangue, non un patto scritto, ma un patto creato dal desiderio e dalla ricerca della felicità.

L'attrazione degli Inferi Winner#Wattys2016Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora