_Twenty four_

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Atroce, ecco cos'era. Crudelmente, ecco come si comportava . Morte, ecco come si chiamava.

Terpilih era sopra un pavimento, il luogo non era importante. Importante era quello che stava per fare. Importante era quello che provava. Sentiva il cuore a pezzi. Eh già! Una demone, una demone sentiva il cuore a pezzi. Sentiva di non aver un posto nel mondo, non riusciva a convivere con i propri demoni.

Morgue. Era diventato uno di loro. Era diventato come loro. Nella notte andava a ucciderla, nel sonno la rapiva e la torturava urlandole "è colpa tua se sono morto. È colpa tua. Tua. Tua," in un susseguirsi di pianti.

Terpilih lo vedeva dappertutto. Per questo aveva preso quella scelta. Era in quello strano lampadario, nella luce rossa vedeva il suo sangue. Di solito le vittime non sono meglio dei propri assassini. Morgue, invece,  era una vera e propria vittima.  Lo spigolo della parete le ricordava la ruga frontale, così espressiva, che gli compariva quando faceva l'offeso.
Il pavimento le ricordava la sua voglia di correre, immensa. Immensa come il celo, immensa come il dolore di Terpilih. Eh oh! Si accasciò su sé stessa scusandosi. Una fitta le trapasso la testa. Eh oh! Il pugnale era puntato nel cuore, lì doveva colpire, da lì era morta.
Rigirò il manico fra le dita, sfiorò la lama con il dito indice percorrendone la sagoma.

Lacrime. Rise: una risata malata, di dolore, Morgue le avrebbe definite "da perdenti. Perché i vincenti non piangono, i vincenti vincono".

Ma lei sapeva, lei sapeva che piangere indicava essere umana, lei era umana.

Lei era un demone, lei era umana, ma...prima di tutto...lei era una madre.

Un frutto strappato all'albero, prematuro, incapace di maturare da solo, ecco cos'era Morgue.

Un albero a cui avevano sradicato le radici, un albero senza foglie, ecco cos'era Terpilih.

E a cosa serviva un albero senza frutti?, come nei frutti c'era il seme, la speranza di difondersi per la pianta, in Morgue c'era la speranza di vivere per Terpilih.

Qualcosa dentro di lei si stava muovendo, lentamente....velocemente; il mostro rivoleva il controllo del corpo.

Non questa volta. Basta. Basta. Basta. Ecco cosa pensava Terpilih.

Mio. Mio. Mio. Ecco cosa diceva il mostro.

Ed ecco cosa restava dalla discussione: dolore.

Terpilih guardò ancora una volta la lama a qualche centimetro dal cuore. Continuava a ripetersi : sarà veloce, non soffrirò più.

Si preparava. Chiudeva gli occhi. Faceva un respiro. Stringeva il manico con tutt'e due le mani.

Sospirava. Apriva gli occhi. Guardava la lama. Ripeteva il gesto. Dentro di lei qualcosa rideva, il mostro rideva.

Strinse maggiormente le gambe incrociate, appoggiò la testa nel muro, sospirò.

Morgue. Sospirò.

Morgue. Sospirò.

Morgue. Sospirò.

Morgue. Pianse.

Si lasciò andare alle lacrime: seguivano i solchi sotto gli occhi, andavano avanti fino al mento, da dove cadevano in gocce perfette. Dolci.
Le lacrime erano dolci. Un'altra beffa. Se i demoni piangevano, le lacrime erano dolci. Le lacrime di dolore testimoniavano una loro virtù, l'ingordigia.

Tutto si prendeva beffa di lei.

Era tutto così sbagliato, ingiusto. Rise ancora. Cosa poteva trovarci di giusto, O stolta, nell'inferno? Aveva deciso di vivere nelle fiamme, di rifiutare l'amore per il padre. Lei era una madre, lei era un'umana, ma prima di tutto era una demone e i demoni non potevano amare. Così aveva deciso Uriel. Così aveva deciso Dio.

L'attrazione degli Inferi Winner#Wattys2016Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora