L'INCIDENTE (217° giorno di reclusione)

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Non è chiaro come sia successo, ma dall'opificio escono fumo e impressionanti lingue di fuoco. I due robusti e anonimi edifici che costituiscono la fabbrica sono circondati da dense nubi di caligine.

C'è un odore acre che rende difficile respirare all'aperto: l'aria all'interno deve essere asfissiante. È metà pomeriggio, gran parte delle detenute sono all'interno o nelle immediate vicinanze. Si sentono urla terribili e le secondine stanno correndo verso la struttura in fiamme. È già stato dato l'allarme: dallo spazioporto militare al di fuori del campo arriveranno presto mezzi antincendio, ma per ora chi è dentro deve cavarsela da solo.

Parte delle spesse travi di sostegno al soffitto sta cedendo e precipitano una dopo l'altra con terrificanti boati: alcune recluse sono già rimaste travolte e non potranno essere salvate.

Madalen è in una delle aree più libere dal fumo e dalle fiamme, che si stanno velocemente propagando, ma allo stesso tempo è lontana dall'unico varco utilizzabile. Cinque ragazze del reparto in cui sta lavorando hanno la prontezza di spirito di bagnare le loro divise e di tenerle davanti alla bocca, per diminuire il disagio di respirare le esalazioni dell'incendio. Esortano con fermezza ogni altra detenuta a procedere lungo il corridoio che conduce all'uscita.

Il calore sulla pelle è già pericolosamente intenso. Hanno pochissimo tempo per uscire prima che diventi insopportabile. Avanzando, l'aria che entra nelle loro gole diventa sempre più caustica. Un muro di caligine avvolge le loro figure, grigie su grigio, solo le mani allungate a cercare la rassicurante presenza delle compagne conferma che sono vicine. L'abitudine a percorrere i reparti tutti giorni le conduce senza incertezza nell'intricato dedalo dell'edificio.

Madie è in coda al suo gruppo, in vista alla porta, quando il soffitto inizia a collassare loro addosso come una pioggia di fuoco. Una delle ragazze con la voce arrochita dal fumo e celata dal tessuto, comincia a singhiozzare. Un'altra, alla sua destra, urla di non fermarsi e intima di non cominciare a frignare. Devono mantenere la calma, ancora solo qualche istante. Ne va della loro stessa vita.

Le militari, all'ennesimo crollo, hanno cominciato ad arretrare, solo alcune, le più risolute o, forse temerarie, stanno attendendo l'ultimo drappello di carcerate, cercando di non lasciarsene nessuna indietro.

Nella luce che vagamente s'insinua dall'esterno nel fitto fumo, Madalen riconosce le sagome delle ragazze che oltrepassano l'uscita. Sulla soglia una giovane sergente si assicura che riescano a mettersi in salvo. Anche la quinta detenuta davanti a lei è uscita. Madalen esita un secondo, guardandosi indietro, prima di affiancarsi alla militare che la sta sollecitando.

Un bagliore la acceca per un attimo e un atroce grido di dolore e sgomento la paralizza: una scheggia infuocata è precipitata dal soffitto e ha colpito in viso la sergente. La secondina s'immobilizza in preda al panico proprio sull'unico passaggio libero: il solo punto dove si riesca a camminare e non sia ostruito dai detriti, pezzi di legno in fiamme e cenere.

Un fragore di vetri infranti suggerisce a Madalen che l'ultima porzione del soffitto stia per cedere: se la sergente non si sposta, rimarranno entrambe sepolte dalle travi crollate. Madalen ha solo un istante per decidere: può spintonarla a lato, facendola cadere, poi uscire, o provare a spingerla in avanti. Se cadrà, non avrà scampo. Lucidamente, la costringe ad avanzare con il suo peso e mentre scivolano, una sopra l'altra, parzialmente oltre la porta dove le stanno aspettando i soccorsi, sente un bruciore e un dolore insopportabili al lato sinistro. Prima di svenire, nota che una delle traverse le ha schiacciato l'avambraccio che ha preso fuoco.

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